Sul blog di Michela Murgia ho letto un articolo molto interessante; la scrittrice prende di mira sia l’onorevole Santanché, sia il giornalista Gilioli. Mentre l’una dà del pedofilo a Maometto, l’altro osanna la coppia Giuseppe-Maria. Nella conclusione dell’articolo si trova una riflessione che condivido pienamente; ad un certo punto Michela Murgia accenna ad un pamphlet di prossima pubblicazione dal titolo Ave Mary, in cui tratterà della relazione tra la cultura cattolica e i modelli di genere, e prende atto di ciò: “Quando ne parlo con amici capita che incontri un certo laico scetticismo, la distanza di chi, avendo da tempo chiuso i conti con la fede, tende a non considerarli più aperti neanche con la cultura che quella fede ha fondato e retto per secoli. Ma se rinunciare alla prima è possibile, spogliarsi della seconda potrebbe non essere altrettanto agevole. La gaffe di Gilioli fa riflettere proprio sul fatto che la cultura di secoli – il nostro non aver potuto per tanto tempo non dirci cristiani – influenza in maniera molto subdola il modo in cui guardiamo il mondo ancora oggi, segnati da un imprinting inconsapevole da cui è difficile liberarsi, anche quando la fede è un percorso archiviato. Io, che non ho archiviato nè fede nè cultura di fede, intanto ci lavoro su”.
Ecco, è quel “ci lavoro su” che dovrebbe essere convertito in un “ci lavoriamo su”.
A scuola, per esempio.
Da quest’anno ho deciso, infatti, che i nuovi arrivati dalle medie si confronteranno con un altro(a parte Omero) macrotesto ineludibile della nostra cultura, la Bibbia.
C’è un aspetto prettamente letterario e poetico, di cui non si può tacere.
Senza considerare che soprattutto l’Antico Testamento è un serbatoio di simboli e immagini con cui continuiamo a confrontarci.
Un esempio è il libro del pessimista Qoelet.
Vanità delle vanità, dice Qoèlet,
vanità delle vanità, tutto è vanità.
Quale utilità ricava l’uomo da tutto l’affanno
per cui fatica sotto il sole?
Una generazione va, una generazione viene
ma la terra resta sempre la stessa.
Il sole sorge e il sole tramonta,
si affretta verso il luogo da dove risorgerà.
Il vento soffia a mezzogiorno, poi gira a tramontana;
gira e rigira
e sopra i suoi giri il vento ritorna.
Tutti i fiumi vanno al mare,
eppure il mare non è mai pieno:
raggiunta la loro mèta,
i fiumi riprendono la loro marcia.
Tutte le cose sono in travaglio
e nessuno potrebbe spiegarne il motivo.
Non si sazia l’occhio di guardare
né mai l’orecchio è sazio di udire.
Ciò che è stato sarà
e ciò che si è fatto si rifarà;
non c’è niente di nuovo sotto il sole
Per ogni cosa c’è il suo momento, il suo tempo per ogni faccenda sotto il cielo.
C’è un tempo per nascere e un tempo per morire,
un tempo per piantare e un tempo per sradicare le piante.
Un tempo per uccidere e un tempo per guarire,
un tempo per demolire e un tempo per costruire.
Un tempo per piangere e un tempo per ridere,
un tempo per gemere e un tempo per ballare.
Un tempo per gettare sassi e un tempo per raccoglierli,
un tempo per abbracciare e un tempo per astenersi dagli abbracci.
Un tempo per cercare e un tempo per perdere,
un tempo per serbare e un tempo per buttar via.
Un tempo per stracciare e un tempo per cucire,
un tempo per tacere e un tempo per parlare.
Un tempo per amare e un tempo per odiare,
un tempo per la guerra e un tempo per la pace.
Che vantaggio ha chi si dà da fare con fatica?
Alcuni di questi versi sono diventati anche modi di dire.