
Anche la mia scuola per e in questi giorni di guerra si sta mobilitando per gli Ucraini sia attraverso vettovaglie e indumenti, sia tramite il canale sommo della cultura.
Pochi giorni fa accanto ai piedi dei banchetti covidiani ho intravisto delle buste di plastica con latte, biscotti e merendine; qualcun altro ha provveduto con coperte e tute. Ad essere sincero, mi sono fatto un po’ schifo, perché non mi sono preoccupato minimamente di dare il mio contributo, mentre i ragazzi sono stati prontissimi ad accogliere l’appello dei colleghi impegnati. Almeno avere la prontezza di lodarli per il gesto, invece sono rimasto pietrificato e ho continuato a parlare di fanciullino e onomatopee ornitologiche.
Sul versante culturale alcuni studenti si sono cimentati nella scrittura di articoli da pubblicare sul giornale d’istituto e nella realizzazione di brevi video, nei quali recitano una poesia a tema “guerra”. A questa iniziativa non ho resistito e l’ho perciò abbondantemente pubblicizzata nelle classi in cui insegno; io stesso ho fornito ai lettori-recitanti una carrellata di poesie italiane e straniere, lasciando a loro la scelta del testo. Via via i ragazzi mi hanno inviato i loro lavori, che ho molto apprezzato non senza emozione.
Politicamente la prodigalità degli studenti potrebbe anche essere oggetto di critiche, se si pensa che nel nostro splendido globo si guerreggia a tutto spiano; forse soltanto gli Ucraini sono degni di attenzione e aiuti? E perché non gli Haitiani o i Somali? C’è sempre una parzialità negli atti umani, che spingerebbe a nutrire molte riserve per queste iniziative umanitarie. E anche dal punto di vista pedagogico qualche ombra le oscura. Ma che fare? Non sarebbe peggio chiudere gli occhi, vestirsi di cinismo e dire “o per tutti o per nessuno”?