Santa Lucia 2020

Le arancine, come da tradizione palermitana, con carne macinata e piselli. Il covid non ferma gli intrepidi della cucina, anzi li fortifica per spirito di resistenza.

E quelle con burro, provoletta dolce e prosciutto cotto a dadini.

Qui cotte e dorate.

Un’immaginetta vintage di Santa Lucia.
La cuccia…o grano bollito con crema di ricotta e canditi, ma questa è opera di una vicina di casa.

“Sbarazzu”

Félix Valloton, Pont sur le Béal

Soltanto a pochi giorni dall’inizio delle lezioni che quest’anno, come già lo scorso, cominceranno il 12 settembre, si è concluso il tira e molla delle cattedre, il cui autore, dopo averle criptate per giorni come se si trattasse di una password per home banking, le ha squadernate pubblicamente in sede collegiale. Personalmente avevo ben poco da temere grazie alla santa e benedetta continuità, ma restavano in bilico alcune ore che, dopo appello ai numi tutelari della graduatoria d’istituto, si son epifanizzate in forma di latinorum, il che, in una prima classe, non mi spiace. Ma una prima è sempre una prima e, se si considera il processo di ospedalizzazione coatta che è stato imposto alla scuola italiana(pare, infatti, che le nuove generazioni, a parte le loro croci familiari e personali, vivano angosciosamente l’ingresso nella scuola superiore e necessitino di cure e attenzioni specifiche), non c’è tanto da starsene allegri. Fa ridere, invece, la ricerca ossessiva da parte dei colleghi di quei libri di testo, che in gran quantità giacciono come copie -saggio nelle retrovie delle biblioteche personali, da destinare a figli, nipoti, cugini, pronipoti, zie, nonni e trisavoli; prova ne è la messaggeria della chat di whatsapp, che abbonda di foto e pdf con tanto di titoli e case editrici. A meno che io non li abbia adottati, ne sono assai prodigo, perché non solo non m’interessano, ma ho pure la possibilità di liberarmene prontamente. In tal senso settembre è per me un mese di sbarazzu*: via i libri scolastici che non userò, i file che mai più utilizzerò, le fotocopie in eccesso di tanti documenti diventati improvvisamente anacronistici(vedi i saggi per lo scritto d’italiano), via il caldo indiano asfittico da Passaggio in India e soprattutto il condizionatore! Settembre 2019, infatti, si apre sotto gli auspici di una pioggia benefica e finora non troppo violenta per fortuna. Proprio mentre scrivo, il rombo dei tuoni si fa sempre più tenue e le stoppie abbrustolite dall’afa estiva biancicano sotto i raggi settembrini per la recente pioggia. Per i primi giorni di scuola saranno così preservate le ghiandole sudoripare di tutti e nelle aule si potrà soggiornare, grazie anche all’orario ridotto, freschi e pimpanti.

*Sbarazzu è un sostantivo che indica in siciliano l’azione dello sbarazzarsi di qualcosa di ingombrante. Non credo che in italiano sia attestato come sostantivo.

I “componenda” italo-siculi del Birraio di Preston

La morte di Camilleri e lo straparlare che ne hanno fatto i media mi han fatto sorgere il desiderio di riprendere la prima opera che ho letto di lui,Il birraio di Preston, un lungo racconto, che l’autore ha definito romanzo, pubblicato da Sellerio nel 1995. Si tratta, in verità, di un libro di cui mi sono indebitamente appropriato, imprestatomi da un voracissimo e compulsivo lettore che, nella foga appassionata delle sue letture, ha scordato di richiederlo indietro.

Intorno al birraio si coagulano gli interessi, non sempre nobili, dei personaggi, nonché i loro pregiudizi: il prefetto Bortuzzi, ritenendo che i Siciliani siano un popolo di ignoranti, impone ai Vigatesi l’opera di Ricci, facendo valere a tutti i costi la forza autoritaria della Legge; dal canto loro i Vigatesi, soprattutto i melomani riuniti nel circolo cittadino “Famiglia e progresso”, ritengono un’offesa infamante sia tollerare gli ordini di Bortuzzi, prefetto di Montelusa con giurisdizione su Vigata, sia assistere alla rappresentazione dell’opera di un illustre sconosciuto, Luigi Ricci, peraltro accusato di scopiazzare le opere dei grandi musicisti. All’ombra dei due poli oppositivi(Bortuzzi-Vigatesi)si muovono altri personaggi, che tentano di sfruttare la situazione soltanto per raggiungere i loro scopi personali o politici: è il caso del mafioso Don Memè, che su istigazione del prefetto organizza dietro le quinte la buona riuscita dell’inaugurazione del teatro, e dei congiurati mazziniani, che vogliono approfittare del malcontento dei Vigatesi per far scoppiare una rivolta contro il novello Stato italiano. Il risultato di quest’ordito di forze sarà l’incendio del teatro proprio durante la prima dell’opera di Ricci, cui si salderanno con grande abilità narrativa da parte di Camilleri scene di eros, rappresentate con gusto descrittivo barocco, di omicidi, con l’immancabile investigatore di fattura pre-montalbaniana, e di una strampalata invenzione, quale un marchingegno spegni-fiamme, che il lettore vede in azione nell’incipit dell’intreccio. In concreto, come afferma Camilleri in calce al romanzo, l’opera può essere letta anche a partire da un capitolo centrale, poiché dal nucleo dell’intreccio il lettore può spostarsi, non sempre agevolmente, da un capitolo a un altro, senza che sia modificato il senso della trama. La specificità letteraria del birraio è la possibilità per il lettore di muoversi in avanti o indietro lungo l’asse della narrazione e al contempo di gustarsi autonomamente ogni singolo capitolo, dal momento che in ciascuno di essi si sviluppa una storia che è insieme autonoma nel significato in sé(è il caso per esempio del dominio dell’eros o della cronaca poliziesca)e dipendente dal focus narrativo. Una storia, perciò centrale, con altre microstorie, di cui vengono esaltati i momenti salienti; in ciò si può ravvisare, a mio parere, la mano dello sceneggiatore e regista Camilleri.

La lettura del romanzo Il birraio di Prestonè un’autentica delizia per un lettore siciliano, non tanto e non solo per l’italianizzazione del dialetto siciliano*, e dei vari dialetti in genere, quanto per il tema fondamentale, a mio parere, che ne sostiene l’impalcatura ideologica: la riottosità storica, culturale, e direi antropologica, dei Siciliani, verso ogni forma di imposizione che provenga da un’autorità non considerata come tale, e di cui il processo di unificazione nazionale è stato metafora e insieme simbolo. Fa da pendant, a sua volta, il tema del pregiudizio da parte del neonato Stato italiano verso il popolo siciliano considerato alla stregua di una bestia ignorante da domare con ogni mezzo e a tutti i costi. Perciò dietro la narrazione briosa, ironica e accattivante del Camilleri del Birraio c’è un fondo di riflessione storico-sociale che fortunatamente mai diventa dramma amaro. C’è poi un tema, che corre parallelo al primo e che accomuna indistintamente gran parte del panorama politico italiano pre-unitario e post-unitario fino ai nostri giorni, ossia il muro di incomunicabilità sospettosa tra centro e periferie dello Stato e viceversa, cui si aggiunge l’incapacità storica delle forze politiche di convergere sul senso da attribuire al bene collettivo di una comunità statale, seppure cucita storicamente male. Ma queste son riflessioni, che scaturiscono nella mente del lettore nella fase meditativa e che nulla tolgono alla bellezza ariosa e vitale del romanzo di Camilleri. Rimangono scolpite nell’immaginario del lettore tre scene, a mio parere, magistrali: quella relativa al piccolo Gerd Hoffer, il cui padre autoritario, inventore del marchingegno spegnifuoco, puntualmente ogni mattina ispeziona il letto del figlio per verificare che non sia zuppo di urina, la reazione irriverente e ironica dei Vigatesi alla rappresentazione del Birraio, e infine la corte di Gaspàno a Concetta Riguccio vedova Lo Russo con annessa descrizione del loro amplesso tramite una metafora marittimo-marinaresca.

*Sulla lingua di Camilleri è stato detto abbastanza; da più parti si sostiene che egli abbia inventato una nuova lingua. A mio modesto parere, Camilleri si è limitato a italianizzare alcune parole dialettali già in uso in Sicilia, che risalgono tra l’altro a una illustrissima tradizione greca, romana, araba, francese, spagnola et cetera; ne ha modificato soltanto la fonetica vocalica e, laddove lo abbia ritenuto opportuno, anche quella consonantica secondo le leggidell’italiano. Da qui a parlare di nuova lingua in senso stretto ne passa. Semmai è una nuova lingua letteraria che nobilita il dialetto siciliano, o forse è meglio dire i vari dialetti locali, siciliani e non. Operazioni linguistiche sperimentate da altri autori della nostra tradizione letteraria. 

Alba arancia

38313342844_ea27943e3fUno dei piatti più prelibati della gastronomia siciliana è costituito dagli arancini. Tutti sappiamo che si tratta di supplì di riso in forma di arancia, contenenti all’interno sugo e o altra carne tritata, non tutti i siciliani però sanno che si dice, per l’appunto, arancini e non “arancine”. In tutta l’isola, infatti, il nome del piatto è un sostantivo femminile; si tratta di un ipercorrettismo che trova giustificazione nel frutto da cui prende il nome e che resiste nella tradizione linguistica locale a dispetto di un libro di Camilleri intitolato Gli Arancini di Montalbano.

Dunque arancini e non “arancine”. Però la Crusca propone una soluzione grammaticalmente diplomatica e perciò condivisibile. 

A scuppuluni

dion3Le giornate più costruttive a scuola sono quelle in cui entri in aula per spiegare storia romana e ti ritrovi entusiasticamente a ripiegare sul teatro greco nell’imminenza di uno spettacolo teatrale. Alla faccia dei cultori del pedagogismo pedante!

Che non si dica che gli studenti assistano a uno spettacolo teatrale dal sapore civile contemporaneo senza possedere un minimo di conoscenze sulle origini del teatro; che poi a Siracusa qualche assaggio l’hanno fatto.

Le lezioni migliori, come sempre, sono quelle non previste e non programmate.

A scuppuluni, come si dice dalle mie parti.