SupinaMente

Dopo la pubblicazione sul Corriere della Sera di questa foto, tratta da un libro di scuola primaria, si è abbattuta una vera e propria bufera sulla casa editrice, che è stata incriminata per razzismo per aver fatto pronunciare al bimbo in vignetta la frase “Quest’anno io vuole imparare italiano bene”; da quello che si può dedurre dal contesto, il crimine sarebbe stato commesso per il fatto che soltanto il bimbo straniero storpi il predicato verbale non accordandolo col soggetto, mentre tutti gli altri bambini pronuncino delle frasi corrette. Detto in soldoni, si contesta agli autori la scelta del bambino africano, frutto di uno stereotipo culturale a sfondo razzistico; perché non scegliere, per esempio, un bimbo russo o giapponese?

La stessa pagina è stata poi linkata da un gruppo di amanti della lingua italiana sul profilo Facebook di RadioTre e lì si è sollevato un coro di voci pressoché unanimi nel condannare la scelta infelice della casa editrice. A questo punto ho digitato un mio commento, che è stato letteralmente fagocitato dalla rete. Probabilmente anch’io, senza saperlo, sono razzista.

Fermo restando che quella didascalia è semplicemente indecorosa, la mia opinione, espressa in quel commento, peraltro in un gruppo che si occupa di lingua italiana, suonava così: “La scelta di quella frase, scritta in un libro per bambini di primaria, è innanzitutto inaccettabile sul piano linguistico, perché non fornisce un buon esempio di uso della lingua italiana agli scolari e non rende ciò che di fatto avviene nella realtà scolastica, perché ci sono alunni stranieri che si esprimono benissimo in lingua italiana e altri che pronunciano frasi peggiori di quella messa in bocca al bambino dell’illustrazione; legittima sarebbe stata, invece, se si fosse trattato di un esercizio da svolgere, che prevedeva la correzione dell’enunciato e la sua riformulazione”. Probabilmente ho commesso contestualmente due delitti: mi sono discostato dal Pensiero Unico dei commentatori di quel post e ho spostato il focus dell’argomento, ossia dal razzismo della casa editrice all’inopportunità didattico-educativa di quella frase. Ma una delle Leggi del Pensiero Unico è che sia necessario commentare i post di varia natura e su vari siti, attenendosi rigorosamente a ciò che gli autori hanno formulato sul piano contenutistico e alle sfumature socio-politiche da loro sotterraneamente o manifestamente tratteggiate. Per me tutto ciò è inammissibile sotto il profilo dell’onestà intellettuale e della libertà espressiva. Non è mio uso e costume, tra l’altro, commentare in modo offensivo e irriguardoso nei confronti di chicchessia.

A sciarra finì

Sciarra Chitarra musica e battaglia scendi dalle scale, faccia di maiale.

img_9441Questa è la filastrocca che i bambini degli anni ’70, cresciuti anche nella scuola della strada, eravamo soliti intonare come menestrelli in erba, quando si litigava e si dichiarava guerra a colui che, qualche minuto prima, era stato il nostro preferito compagno di giochi. La guerra durava al massimo l’arco di una nottata e nessuno di noi si sognava di afferrare un coltello e di assassinare l’avversario. Era una guerra giocosa e burlesca, fatta di scaramucce e dispetti; spenta la sciarra, si tornava amici.

Sciarra. Ecco la parola che oggi pomeriggio ha fatto scaturire dalla memoria la filastrocca fanciullesca che, a dire il vero, non ricordo a quale gioco o tradizione risalga. E il colpevole è Luigi Pulci, autore del Morgante maggiore, oggetto della mia prossima lezione di letteratura italiana. Fino a qualche ora fa pensavo che la parola sciarra fosse rimasta confinata nel vernacolo siciliano, che tanti tributi ha ricevuto dalla lingua araba. La parola deriva dall’arabo sarrah e vuol dire ostilità; per essere precisi nella lingua siciliana è un nome legato alla concretezza dell’azione e indica una lite furibonda, che comunque potrebbe prevedere una possibile riconciliazione tra i litiganti. Da sciarra è derivato l’intransitivo pronominale reciproco sciarriarsi e il sostantivo sciarriatina. Rileggendo qua e là il Morgante(dopo anni di abbandono), ne ho assaporato il variegato tessuto linguistico, che è ricco di prestiti dialettali da varie parti d’Italia. Avevo cominciato a rileggerlo mosso dal dovere di preparare la lezione e invece sono stato catturato dalla fattura linguistica del poema, che come un collante salda le strampalate avventure dei protagonisti mostruosi, un gigante, appunto Morgante, e un gigante riuscito a metà, Margutte, la cui trinità è costituita dalla torta, dal tortello e dal fegatello. Un’opera così intelligentemente viva che oggi, in piena epoca di linguisticamente(e politicamente)corretto, apparentemente laica, susciterebbe, come minimo, una levata di scudi. 

Il report WP 2015

Abbastanza ipocrita WordPress, se fosse una persona. Ma non lo è, perciò ci si attiene ai dati, che sono indiscutibili sul piano aritmetico; al più possono essere interpretati. Ed è abbastanza facile. Già il report dell’anno scorso evidenziava un aspetto del mio blog: i visitatori prediligono i post del passato, ancora meglio delle origini del blog, mentre la loro preferenza non viene accordata ai post più recenti. Quali potrebbero essere le cause? Una è generale, ossia l’abbandono generalizzato dei blog, l’altra è spiccatamente specifica, ossia il riscuotere evidentemente meno “simpatie” per una diminuzione drastica della gradevolezza dei post, soprattutto quelli che ritraggono immagini di santi e tradizioni religiose cristiane. Probabilmente qualche mente contorta ritiene che io impieghi il mio tempo a lisciare le tonache dei parrini soltanto per il fatto che mi piacciono le tradizioni religiose e, d’altro canto, in tempi di pensiero unico e liquido è inaccettabile per i più un massiccio riferimento a simboli cristiani, santi, beati e così via. Lo si può dedurre dalla quantità scarsa dei commenti e dalla reazione a catena, che innescano alcuni post anziché altri(se commenta Pinco, commenta Pallino e Tizio e Caio; se Pinco si astiene, ecco la medesima reazione); di contro non si capisce perché siano aumentati i followers, che hanno superato le centinaia. Si tratta di followers silenziosi, che non lasciano però una briciola di commento. In ogni caso ringraziamo tutti: WordPress, che mi ha inviato il report, i followers silenziosi e tutti i commentatori.

I folletti delle statistiche di WordPress.com hanno preparato un rapporto annuale 2015 per questo blog.

Ecco un estratto:

La sala concerti del teatro dell’opera di Sydney contiene 2.700 spettatori. Questo blog è stato visitato circa 24.000 volte in 2015. Se fosse un concerto al teatro dell’opera di Sydney, servirebbero circa 9 spettacoli con tutto esaurito per permettere a così tante persone di vederlo.

Clicca qui per vedere il rapporto completo.

Le parole zitte

ts2332v3-57A partire dalla morte inaspettata e improvvisa del migliore dei colleghi di filosofia, uno splendido cinquantenne dal garbo elegante e dal cipiglio coraggioso, capace di dar filo da torcere a un intero collegio, compreso il DS, pare che da qualche anno la mia comunità scolastica abbia scoperto che la malattia esiste anche dietro una cattedra. E con essa anche Lei, la Morte. Ma se ne parla di nascosto, dentro le stanzette, fra i corridoi. A due a due, a tre a tre, in crocchio. Molto spesso noi professori, almeno agli occhi degli alunni, appariamo immortali ed esenti dalle patologie, e magari ce le augurano pure quando, nel bene e nel male, commettiamo un’ingiustizia nei loro confronti. Poi, però, quando improvvisamente il migliore, porca miseria, finisce sotto un cumulo di terra o dietro una lastra di marmo, è un profluvio di rimpianti, ricordi e suono della campanella ad ogni anniversario. Dicevo appunto che da qualche anno la malattia grave o degenerativa è diventata familiare nella mia scuola, ma un dato accomuna tutti i colleghi con infermità permanenti o con ricadute periodiche: il silenzio(Che poi il mio liceo non è popolato da matusalemme). Con questo non voglio dire che uno debba mettersi davanti al microfono e annunciare a tutti i colleghi che sta morendo o che sta male, però si respira nell’aria quella tipica ipocrisia intellettuale, e intellettualistica, di coprire a tutti costi e ipocritamente la malattia o l’infermità. Io penso che la ragione di tale scelta sia ascrivibile alla vergogna di sentirsi additati come malati, come se la condizione patologica fosse percepita dagli occhi degli altri colleghi come una diminuzione della propria professionalità, preparazione, autorevolezza. Triste è semmai apprendere da un sms o da una telefonata che un collega è deceduto, mentre una settimana prima ci avevi scambiato quattro chiacchiere o ti ci eri scontrato durante una riunione. Alcuni obietteranno che la causa del silenzio sia una sorta di pudore rispettoso nei confronti di se stessi e degli altri. Ma con quale coraggio oggi si può parlare di pudore, quando si sbandiera ai quattro venti il meglio, o ciò che è ritenuto tale, di se stessi? Che si è fighi, belli, intelligenti, in forma, dotti, superiori agli altri, con quattro amanti, uno ad ogni angolo di strada, ma malati no, malati mai. 

La cattiveria laureata

È credibile che al cellulare di un collega, da me chiamato per urgenti questioni organizzative, risponda il figlio di appena sei anni, indottrinato a dovere dal papà su come liquidare l’interlocutore seccatore?

Papà è uscito, ha scordato il cellulare a casa.