Fiato di bocca

Bocche piene di falsità che nutre il mondo
Mani prive di dignità, votate a Dio
Sali, uomo, sali e dimentica
Sali e ritorna alla tua nascita

Occhi dell’ambiguità dei nostri tempi
Vite frammentate senza verità
Sali, donna, sali e resuscita
Sali e ritorna alla tua nascita

Libera l’anima
Come rondini la sera
Vola libera

Nitida come il canto dell’anima
Come stella dell’aurora
Di un mattino che non c’è
E che non ha nome

Arca dell’umanità andata a fondo
Cuori puri mangiati dall’avidità
Sali e poi un’altra vita tu

Vivrai, vivrai, vivrai
Vivrai, vivrai, vivrai
Vivrai, vivrai, vivrai

Libera l’anima
Come stella dell’aurora
Di un mattino che non c’è

Sali, sali
Rosa, sali
Come stella dell’aurora
Di un mattino che non c’è

E che non ha nome, oh
Che non ha nome
Oh, oh, oh, oh, oh, oh, oh

Nitida l’anima
Come stella dell’aurora
Di un mattino che non c’è
E che non ha nome

Acquietatasi la bufera della settimana sanremese, a margine della kermesse annoto tristemente che, almeno in Italia, c’è una cattiveria social, mista a odio, che mi fa paura oltre che ribrezzo. Ho infatti seguito spezzoni delle varie serate sia in tv che tramite Facebook; in un certo senso il social mi è servito per ammortizzare i tempi musicalmente morti o impropri del festival: i monologhi delle vallette, Benigni, le gag preconfezionate, gli ospiti, le volgarità e la maleducazione di certi personaggi…e si potrebbe continuare. Bersaglio di odio e cattiveria nei social è stata la mia cantante preferita, ossia Anna Oxa, da tempo invisa ai giornalisti e alla dirigenza della televisione pubblica. A questo in un certo qual modo mi ero abituato; da almeno vent’anni i giornalisti hanno il dente avvelenato contro la cantante dopo la vittoria del ‘99 che a detta di alcuni di essi sarebbe stata immeritata e dopo l’incidente di percorso come ballerina dalla Carlucci, che ha avuto uno strascico legale tale da determinare una sorta di damnatio memoriae della Oxa dagli schermi pubblici. Se a ciò si aggiunge l’evoluzione artistica della cantante dagli anni ‘00, il quadro risulta ancora più chiaro. Durante questo ventennio i media hanno affrescato attorno alla Oxa uno sfondo leggendario fatto di intrattabilità caratteriale, alterigia, presunzione, divismo, che hanno prodotto a livello periferico la cattiveria cui facevo riferimento. Ho letto commenti e visionato meme e video, che sinceramente devo dire mi hanno infastidito. Qualcuno l’ha paragonata a una monaca per via del vestito della prima serata, un altro alla moglie di Tarzan, sia per la capigliatura che per gli acuti finali del pezzo; qualche altro ha lamentato di non avere capito nulla né della canzone, né delle singole parole. Una nota giornalista ha paragonato la canzone a quella di un druido celtico; e questi sono stati per così dire i più benevoli. Il vituperio peggiore, invece, l’ho registrato nei commenti della gente comune, che per decenza ometto qui nel post. Pochi hanno evidenziato con onestà la scelta della Oxa e con motivazioni fondate il significato del testo, che non necessariamente deve piacere a tutti. Però c’è modo e modo di esprimere il proprio parere. Non gradire è un conto, offendere e dileggiare un altro. Hanno lavato, invece, questo fango tanti comuni estimatori che, prima di aprire bocca, hanno attivato il cervello e il cuore.

“Nebbia mattinal fumare”

Ho scelto appositamente quest’immagine, scattata ieri mattina presto, mentre ero immerso nella nebbia mattutina delle 6.30, perché è indicativa del periodo che sto vivendo a livello personale e professionale. Tante volte ho fatto cenno alle incombenze familiari legate ai miei “vecchi”, che accudisco con abnegazione e amore smisurato, e pertanto non starò qui a enumerarle per l’ennesima volta; la novità più rilevante riguarda, invece, il mio lavoro scolastico, che è diventato ancora più gravoso degli anni passati. Non mi riferisco ai miei studenti, che di giorno in giorno fanno progressi e soltanto raramente mi fanno spazientire, ma ad un incarico extra, che le alte sfere della scuola mi hanno offerto di svolgere, ossia organizzare la didattica di tutto il liceo, in cui insegno. Trascorro gran parte del pomeriggio davanti ad una piattaforma ministeriale lavorando alla carta d’identità della scuola, quella che viene definita offerta formativa. Un lavoraccio immane, che prevede un continuo raccordo con tutta la colleganza e con gli altri “missi dominici” della scuola. Soltanto un incosciente come me, dati gli impegni familiari, poteva candidarsi per l’espletamento di questo incarico, ma la scelta è stata dettata da un atto di amore nei confronti della mia professione; a scuola non ho mai amato parassitare, vivere di rendita, stare in ombra e defilato o fluttuare in quella sorta di beata ignoranza del “non so che pesci prendere”o del “chiedo al collega più informato” o, peggio ancora, subire passivamente scelte altrui non sempre ben ponderate. A me piace essere protagonista attivo del mio lavoro a tutti i livelli: educativo, didattico, normativo… E in più io…a scuola devo ancora rimanere per un bel po’ di anni. Quindi, faccia a faccia con me stesso, mi sono fatto quattro conti e mi sono imposto di rivalutare il mio lavoro a 360 gradi. Non so se riuscirò in questo intento assai pretenzioso, ma profonderò tutto l’impegno possibile. Da qui la mia latitanza rispetto alla cura del mio e degli altrui blog; confesso di averne sofferto a tal punto che nei giorni scorsi ho ipotizzato di scrivere un post di pausa o di addio al mondo “bloggaro”, ma poi ho letto i messaggi di Angela La Maratoneta e di Alidada, che ringrazio di cuore per il pensiero, e, avendone ricevuto conforto e motivazione, ho deciso di desistere dalla scelta di silenziarmi. Mi auguro di poter riprendere piacevolmente a postare, ma non tutto dipende dalla mia volontà. Purtroppo o per fortuna nella mia vita il dovere ha sempre prevalso sul volere. Sic est.

Falsari della parola

Nella sfigata mattinata di un tipico lunedì di pioggia battente improvvisa e di traffico automobilistico degno di un Caronte infernale, potenziato da un ponte in rovina su un’arteria stradale vitale per Palermo, ho sperimentato quanto il linguaggio dei politici e di molti informatori, e non solo, sia degno dei migliori falsari di dantesca memoria. 

Nel corso di un’ennesima peregrinazione presso un polo medico di eccellenza, al quale il mio caro papà(invalido e ormai handicappato)si è evidentemente affezionato, ho toccato con mente e parola che il green pass non è quello che dovrebbe rappresentare. Col verde del semaforo passi, col green pass non passi. Di verde non ha nulla, né della luminosità di un semaforo, né di un ameno poggio verde ridente in epoca green; una metafora infelice, privata di ogni rapporto referenziale con l’oggetto, che nei fatti non ti consente di varcare la soglia di un ospedale come accompagnatore di un paziente, handicappato in carrozzina, e per giunta con un bel pannolone da incontinenza. Gli operatori, dopo aver rilevato la temperatura mia e del mio creatore, mi hanno subito richiesto l’attestazione di un tampone per poter varcare l’ingresso e a nulla è valso che esibissi l’attestazione dell’handicap di mio padre, che ha diritto ad essere assistito da un familiare. Risultato? Sono rimasto fuori dalla struttura, mentre un’operatrice si è presa cura di guidare la carrozzina di mio padre per i meandri dell’ospedale. Ho atteso in fibrillazione per circa 30 minuti, timoroso che mio padre potesse aver bisogno anche solo di un bicchiere d’acqua o di andare al cesso; i miei timori si sono rivelati in parte infondati: papà se l’è tenuta addosso l’urina e l’operatrice ha lasciato da solo mio padre, che stoicamente ha trattenuto la piscia nella vescica. Sia chiaro! Non contesto per nulla la scelta del dirigente sanitario, ma almeno avvertire il paziente nel corso del triage telefonico, avvenuto qualche giorno prima dell’esame diagnostico, della necessità del tampone per l’accompagnatore(non per il paziente(mah!), peraltro eseguibile in un capannone montato ad hoc nei pressi dell’ingresso. Potreste obiettare che, stando così le cose, avrei potuto “tamponarmi”, ma sarebbe trascorsa almeno un’ora, considerata la fila dei tamponandi. Ho preferito, invece, rendere veloce l’esame diagnostico per “liberare” mio padre sofferente.

Attenzione! Sia chiaro che io non contesto il green pass, né tanto meno la vaccinazione(sono pronto a farmi inoculare 20 vaccini),ma la designazione di un oggetto con un nome falso, infatti si tratta esclusivamente di un’attestazione di vaccinazione, spacciata per pass da mere ragioni economiche; ciò vuol dire che, se voglio strafogarmi di cibo al ristorante in piacevole compagnia per svago e gola, il pass mi fa passare, se invece accompagno un handicappato all’ospedale il pass è meno utile della carta per il deretano(così mi ha risposto l’operatore). Manca la chiarezza e l’onestà di dire come stanno le cose: il green pass è un’attestazione di vaccinazione, che ci rende ugualmente contagiabili e contagiosi, nel caso il virus trovi una crepa nel sistema immunitario. Virologi e ospedalieri lo hanno chiarito ampiamente, ma non i politici che ci rappresentano(?). Però secondo la vulgata politica il pass funziona meglio sui treni velocissimi e al ristorante. Vergognoso! Indecente! Inaccettabile! E funziona anche a scuola. Ma per il personale tutto, non per i gigliucci da coltivare. Questi sono mondi, immagini iperuraniche della salute, non contagiabili dal virus e soprattutto non contagiosi come noi, immondi vermi dell’insegnamento, novelli untori del terziario.

RispondiInoltra

La “costruens”

In riferimento al post precedente aggiungo che c’è anche una pars costruens dell’anno appena trascorso, perché, costretto dalla pandemia a limitare i contatti sociali, ho imparato a fare cosette che ritenevo impossibili da realizzare fino a un anno fa. Non starò qui a millantare azioni e gesti che non ho avuto lo spirito di affrontare, né conversioni interiori di particolare rilievo sollecitate dall’imposto isolamento, ma abilità(diciamo)concrete quali…

  • fare un’iniezione intramuscolare;
  • ripulire la canna fumaria della stufa a pellet;
  • tinteggiare porzioni di pareti annerite dalla condensa del vapore acqueo;
  • avvitare e svitare viti e bulloni;
  • fare la pedicure ai genitori anziani;
  • passare la tintura sui capelli della madre;
  • rasare i capelli;
  • faticare nei mestieri di casa;
  • massaggiare parti del corpo umano indolenzite o letteralmente intorpidite…
  • …sul versante scolastico daddico
  • esercitare la virtù della pazienza;
  • stemperare l’ira;
  • chiarire in modo circostanziato il perché dei 2, 3 o 4 assegnati a una prestazione al di là delle griglie, che preferisco solitamente adoperare per la carne o il pesce arrosto;
  • sfruttare le risorse del web;
  • tollerare i colleghi molesti, fancazzisti, disinteressati, queruli e reindirizzarli a migliori propositi con il sorriso sulle labbra o, nei casi al limite della patologia, gesuiticamente ignorarli;
  • misurarmi in prima persona nello svolgimento dei compiti assegnati agli alunni, fornendo le chiavi di correzione e l’eventuale percorso ragionativo, perciò non c’è tema, riassunto, versione, esercizio che io non abbia svolto insieme a loro e consegnato in classroom per riflettere insieme sugli errori e le “erranze” giustificabili; preciso che non accetto versioni senza analisi semantica-morfo-sintattica(i siti da cui gli scioperati scaricano le versioni sono sfornite di analisi e ricolme di errori);
  • esplorare e usare le risorse offerte dalle case editrici;
  • gestire in remoto, facendo rispettare tempi e spazi, le riunioni virtuali con colleghi e genitori;
  • gestire contemporaneamente una parte della classe in presenza e una parte in remoto(la cosa più difficile); così è stato per il mese di settembre e ottobre e mi sa tanto che si replicherà a partire da gennaio.

Quindi…non tutto è da buttare del 2020: se socialmente mi sento assai impoverito, pragmaticamente mi sento più forte e soddisfatto di me stesso. Piangere sul latte versato o accusare gli altri non fa parte del mio orizzonte: fermarsi, pensare, adattarsi, agire e sbracciarsi. Non vedo altre formule.

SupinaMente

Dopo la pubblicazione sul Corriere della Sera di questa foto, tratta da un libro di scuola primaria, si è abbattuta una vera e propria bufera sulla casa editrice, che è stata incriminata per razzismo per aver fatto pronunciare al bimbo in vignetta la frase “Quest’anno io vuole imparare italiano bene”; da quello che si può dedurre dal contesto, il crimine sarebbe stato commesso per il fatto che soltanto il bimbo straniero storpi il predicato verbale non accordandolo col soggetto, mentre tutti gli altri bambini pronuncino delle frasi corrette. Detto in soldoni, si contesta agli autori la scelta del bambino africano, frutto di uno stereotipo culturale a sfondo razzistico; perché non scegliere, per esempio, un bimbo russo o giapponese?

La stessa pagina è stata poi linkata da un gruppo di amanti della lingua italiana sul profilo Facebook di RadioTre e lì si è sollevato un coro di voci pressoché unanimi nel condannare la scelta infelice della casa editrice. A questo punto ho digitato un mio commento, che è stato letteralmente fagocitato dalla rete. Probabilmente anch’io, senza saperlo, sono razzista.

Fermo restando che quella didascalia è semplicemente indecorosa, la mia opinione, espressa in quel commento, peraltro in un gruppo che si occupa di lingua italiana, suonava così: “La scelta di quella frase, scritta in un libro per bambini di primaria, è innanzitutto inaccettabile sul piano linguistico, perché non fornisce un buon esempio di uso della lingua italiana agli scolari e non rende ciò che di fatto avviene nella realtà scolastica, perché ci sono alunni stranieri che si esprimono benissimo in lingua italiana e altri che pronunciano frasi peggiori di quella messa in bocca al bambino dell’illustrazione; legittima sarebbe stata, invece, se si fosse trattato di un esercizio da svolgere, che prevedeva la correzione dell’enunciato e la sua riformulazione”. Probabilmente ho commesso contestualmente due delitti: mi sono discostato dal Pensiero Unico dei commentatori di quel post e ho spostato il focus dell’argomento, ossia dal razzismo della casa editrice all’inopportunità didattico-educativa di quella frase. Ma una delle Leggi del Pensiero Unico è che sia necessario commentare i post di varia natura e su vari siti, attenendosi rigorosamente a ciò che gli autori hanno formulato sul piano contenutistico e alle sfumature socio-politiche da loro sotterraneamente o manifestamente tratteggiate. Per me tutto ciò è inammissibile sotto il profilo dell’onestà intellettuale e della libertà espressiva. Non è mio uso e costume, tra l’altro, commentare in modo offensivo e irriguardoso nei confronti di chicchessia.