“D’amendue si dice l’un pregiando”

La morte di Luca Serianni, avvenuta tragicamente, e quella di Pietro Citati arricchiscono di desolazione il panorama culturale italiano; ho conosciuto entrambi attraverso la lettura di alcune loro opere, di natura linguistica quelle di Serianni, di critica letteraria quelle di Citati; credo pure di avere assegnato agli allievi di qualche anno fa un’analisi testuale tratta da un’opera di Citati o vi ha provveduto il Miur. Sono ricordi fumosi, pertanto non ne sono certo. In uno splendido articolo Andrea Riccardi associa la statura di Serianni a quella di Francesco d’Assisi: generoso nel dispensare le sue perle di conoscenza e semplice nello spezzare la parola della cultura linguistica. Da alcune testimonianze ho appreso che Serianni usava un metodo costruttivo nel modo di correggere gli elaborati di italiano, infatti usava il rosso per segnare gli errori e il verde per esprimere apprezzamento per alcune oasi di stile o espressioni limpide offerte dagli studenti. Non sarebbe male coltivare in classe questa pratica in aggiunta alle solite procedure di correzione. Di Citati ricordo, invece, in particolare il saggio su Leopardi, una narrazione romanzata ma storicamente attendibile. Citati e Serianni, due volti differenti della cultura italiana, come le espressioni del loro sentire, ma entrambi da considerare maestri piacevoli di studio nella semplicità e nel rigore, valori sempre più offuscati dal narcisismo culturale della nostra epoca storica.

Il ’22

Auguri a tutti quelli che, come me, possono ancora immaginare che le diafane nubi imprimano le loro tenere gote sul cielo; che le aurore e i tramonti del sole siano torce in fiamme, ceppi per le decapitazioni del sole o letti della funebre notte; che la luna-chiocciola lasci su nel cielo la sua scia luminosa; che delle barche, logorate dal sole e dalle intemperie, siano ugualmente belle da ammirare, mentre immobili giacciono in secca in un canale senza uscita; che la pioggia autunnale sia il pianto dell’estate che va via; che i galletti ventaroli sui tetti delle case montino la guardia dei venti giorno e notte; che l’edera si abbarbichi sulle gronde a segnare percorsi di speranza e i glicini mostrino la loro uva in fiore nelle primavere non mature; che le colombe a passeggio sui tetti possano assomigliare a due suore scalze, che passeggiano per la via; che i gatti possano scorticare il silenzio delle stelle con i loro sviolinanti miagolii…

Chi lo desideri, continui nei commenti ad immaginare…personalmente ho preso spunto da un poeta che apprezzo sommamente.

Io non vedo altre vie d’uscita per la libertà del nostro essere più profondo.

Auguri a tutti!

La grazia delle cose false

Celebro questa piovosissima giornata della poesia con un gioiello, annerito dal tempo, di Marino Moretti.


Rosa della grammatica latina

che forse odori ancor nel mio pensiero

tu sei come l’immagine del vero

alterata dal vetro che s’incrina.

Fosti la prima tu che al mio furtivo

tempo insegnasti la tua lingua morta

e mi fioristi gracile e contorta

per un dativo od un accusativo.

Eri un principio tu: ma che ti valse

lungo il cammino il tuo mesto richiamo?

Or ti rivedo e ti ricordo e t’amo

perche’ hai la grazia delle cose false.

Anche un fior falso odora, anche il bel fiore

di seta o cera o di carta velina,

rosa della grammatica latina:

odora d’ombra, di fede, d’amore.

Tu sei piu’ vecchia e sei piu’ falsa, e odori

d’adolescenza e sembri viva e fresca,

tanto che dotta e quasi pedantesca

sai perche’ t’amo e non mi sprezzi o fori.

Passaron gli anni: un tempo di mia vita.

Avvizzirono i fior del mio giardino.

Ma tu, sempre fedele al tuo latino,

tu sola, o rosa, non sei piu’ sfiorita.

Nel libro la tua pagina e’ strappata, strappato

il libro e chiusa la mia scuola,

ma tu rivivi nella mia parola

come nel giorno in cui t’ho “declinata”.

E vedo e ascolto: il precettore in posa,

la vecchia Europa appesa alla parete

e la mia stessa voce che ripete

sul desiderio di non so che cosa:

Rosa, la rosa Rosae, della rosa…

Poesie [1919]

“Lasarta”

Talvolta nell’incontro con i libri si verificano delle strane coincidenze che, soltanto dopo una meditata, seppure vorace, lettura, scintillano come epifanie di senso e suggeriscono un qualche percorso possibile di interpretazione. Ciò penso sia avvenuto all’Orto Botanico di Palermo per la presentazione del libro di Marilena La Rosa, “La sarta”, pubblicato da Mohicani edizioni: tra gli aliti dei giganteschi bambù, in una feritoia verde appena illuminata dalle luci del pomeriggio, i lettori, reali, in carne ed ossa, ascoltavano attenti le relatrici per afferrare un brandello di motivazione in più per accostarsi alla lettura del libro, ma al tempo stesso in quell’anfratto dall’atmosfera letterariamente esotica, senza saperlo, ne pregustavano l’intensità. Realtà e finzione fiabesca, infatti, si intrecciano perfettamente nella tessitura de “La sarta” di Marilena La Rosa, ma l’opera, ad un’attenta lettura, pur dosando gli ingredienti dell’una e dell’altro, non è né una fiaba, né un giallo, ma una dichiarazione d’amore appassionata ai libri e al loro tessuto sartoriale, un’apologia fiabesca della letteratura nella sua funzione rigenerativa di moltiplicare e dividere vite, rappresentarle…viverle. Ne è spia, in modo particolare, la sarta apprendista, Saele, cui la protagonista, lasarta Yumiko, lascia il testimone dopo aver sapientemente confezionato desideri e sogni per il suo atelier umano in un tempo senza tempo e in uno spazio non circoscritto da confini. La fisionomia fiabesca della trama, tinta di un giallo striato di reminiscenze calviniane, potenzia ancora di più il messaggio gnomico contenuto negli “abiti” della sarta e al contempo prova superbamente a giocare con la stessa partitura linguistica del testo: non solo scelte sottoposte a cesellatura, come è stato più volte ribadito dalle relatrici durante la presentazione, ma passate anche al filtro dell’ironia consapevole dell’autrice, che specialmente nei momenti descrittivi ha ridato linfa ad espressioni e moduli letterari che senza il suo personale sorriso sornione sarebbero suonate retoriche. E questo, a mio parere, ad ulteriore conferma dello spirito del libro e del suo messaggio: l’inesauribilità della letteratura, la sua capacità di plasmare storie che adattiamo ai nostri vissuti, che, come abiti, accorciamo, dismettiamo, rammendiamo; e ancora la sua funzione risarcitoria rispetto al vissuto e al reale e, infine, ma non ultima, la capacità di creare mondi nei quali la mente e lo spirito si conciliano, anche soltanto per poco, con il battito del cosmo. Yumiko e la sua creatrice ci sono ben riusciti.

Dove stanno bene i fiori

I ciclamini, nei chiostri di marmo.
Le ortensie, nelle rosse Certose.
Le margherite, nei prati.
Le viole, tra le foglie secche
lungo i fossi.
La malva, nelle pentole dei poveri, alle finestre.
Gli oleandri, nei vestiboli dei ricchi.
Le rose, dentro gli orti di campagna.
I tuberosi, nei giardini dei collegi.
Le aquilegie, nei cortili dei castelli antichi.

Le ninfèe, come
bianche lavandaie, sotto i ponti.
Gli edelvai, vicino ai nidi delle aquile.
I convolvoli, nelle siepi delle strade.
I glicini, sui ruderi.
L’edera, come una decorazione verde
intorno agli alberi veterani.
I gigli, sugli altari e in processione.
Le orchidee, simili ad aborti, nei bicchieri.
Le azalèe, nelle chiese protestanti.
Le camelie, nei vasi di maiolica sulle scale.
I narcisi, davanti agli specchi.
I garofani rossi, nella bocca delle amanti.
I crisantemi, sulle tombe e nelle tavole.
I pensè, come maschere curiose alle finestre.
I papaveri, nel frumento.
I begliuomini dai fiori ascellari
simili ad arlecchini, negli orti delle zitelle.
Le violacciocche, lungo i viali delle passeggiate.
I semprevivi, nelle camere dei malati e davanti ai santi.
I gelsomini, alle finestre degli ospedali.
I funghi, nei boschi umidi
nelle travi marcite
e nell’anima mia.

Corrado Govoni (1884-1965)