Esprimo qui il mio plauso al regista Matteo Garrone per l’operazione, non certamente di facile fattura, relativa alla trasposizione in immagini di uno dei capolavori della letteratura barocca italiana ed europea del secolo XVI, ossia il Cunto de li cunti di Giambattista Basile. Il Cunto è una raccolta di cinquanta fiabe, organizzate secondo il modello del Decameron, raccontate da dieci narratrici nell’arco di cinque giorni; com’è tradizione consolidata, il primo racconto funge da cornice a tutto il resto.
Ho avuto modo di conoscere l’opera alla fine degli anni ’80 (nell’edizione G.B. Basile, Lo cunto de li cunti, testo della prima edizione del 1634-1636, traduzione a fronte, note, a cura di Michele Rak, Milano, Garzanti, 1985), quando, per puro caso fortuito(il titolare della cattedra sparì per tre anni dal circuito accademico), ebbi la fortuna di avere come professore di lingua e letteratura italiana il professore Michele Rak; il secondo anno prevedeva, tra gli altri, un corso monografico imperniato proprio sul testo di Giambattista Basile. Fu un’esperienza formativa per me rivoluzionaria, perché il professore Michele Rak, dotando noi studenti di un piumino catturapolvere letteraria, riuscì a farci connettere il testo di Basile al contesto pragmatico di performance dell’opera all’interno delle corti seicentesche italiane del secolo XVII; la tesi sostenuta è, infatti, che le fiabe di Basile non fossero destinate alla lettura individuale da parte di lettori silenziosi, ma arricchissero il loro carattere diegetico attraverso una contaminazione felice con la mimesi teatrale: la parola narrativa veniva accompagnata, e completata, da elementi paralinguistici(intonazione, ammiccamenti al pubblico, riso, sbadigli, sospiri), gestuali(le mani, gli occhi), teatrali e musicali. La cornice narrativa, costruita dall’autore, veniva perciò incorporata all’interno di uno spazio, insieme fisico(la sala di recitazione/rappresentazione) e metaforico(il teatro come scena immediata del mondo), in cui, attraverso il ricorso agli strumenti della narrazione, era possibile temporaneamente infrangere, sovvertire e talvolta riscrivere le regole del rigido mondo sociale seicentesco. Per avvalorare la sua tesi, un giorno il professore Rak, durante una lezione, organizzò una cornice teatrale legata ad una delle fiabe: attori, mimi e musicisti accompagnarono la lettura dell’opera e tutti riuscimmo a cogliere le battute popolari, i doppi sensi, finanche i richiami filosofici contenuti nell’opera. Fu per tutti noi studenti un’esperienza surreale e fu sicuramente allora che scaturì da quella lezione, incontenibile, la mia passione per la letteratura barocca tutta. Si trattò di una sollecitazione a ri-studiare ex novo un Seicento, che il mio professore di liceo aveva liquidato con un pre-giudizio iniquo e sprezzante.
Tutto questo, e anche di più, me lo sono goduto attraverso l’operazione filmica di Garrone che, contemperando in modo equilibrato gli effetti speciali cinematografici tipici del fantasy con la fattura artigianale della recitazione degli attori(abilissimi!), concedendo pochissimo ai mirabilia tecnici, è riuscito a realizzare un film coeso e coerente sotto il profilo narrativo e strutturale; il fruitore coglie in maniera distinta la tecnica dell’incastonamento narrativo di una fiaba nell’altra(didatticamente il film può essere un ottimo cavallo di Troia per spiegare agli allievi certe tecniche narrative), è tenuto costantemente in uno stato di suspense emotiva e può felicemente far tesoro della morale contenuta in ciascuna fiaba. A distanza di secoli, con la consapevolezza che non si possa mescolare passato e presente come se fosse possibile azzerare la radicazione storico-sociale di valori, comportamenti e idee, lo spettatore scopre che, in fondo, gli esseri umani restano sempre uguali a se stessi: padri che sacrificano figli per puro istinto egoistico, perdendosi dietro figurazioni illusorie del loro oggetto del desiderio(La pulce), madri e padri che scambiano i figli per oggetti da mostrare, possedere e tiranneggiare nel caso si sottraggano al prolungamento del loro desiderio(La cerva), bellezza e potere ottenuti attraverso il ricorso all’inganno, alla finzione, alla manipolazione di sé, degli altri, del proprio corpo(La vecchia scorticata); in ogni caso sono le leggi della narrazione a ristabilire gli equilibri infranti, quelli che, molto spesso, gli uomini non sono riusciti a comporre. Né ieri, né oggi.
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