Van Gogh animato

Non si tratta di nuovi dipinti di Van Gogh appena sequestrati al collezionista di turno, ma dei fotogrammi del film animato Loving Vincent, che sono riuscito a trasformare in fotografie, mentre seguivo su rai3 il film dedicato al grande pittore. Si tratta del primo film interamente dipinto su tela, rielaborando oltre mille dipinti per un totale di 66 960 fotogrammi realizzati da 125 artisti provenienti da varie parti del mondo. Alcuni quadri sono stati riadattati modificandone il rapporto, aggiungendo parti, scambiando il giorno con la notte, il tempo meteorologico e le stagioni. La pregevolezza del film non risiede soltanto nelle immagini che si susseguono durante la visione e che lasciano senza respiro chi le mira, almeno per chi ama i colori e le atmosfere di Van Gogh, ma anche nell’intento letterario che anima i registi, infatti la narrazione è condotta sotto forma di inchiesta da Armand Roulin, che su incarico del padre, il postino Joseph Roulin, tenta di ricostruire le ultime fasi della vita del pittore, ricostruendone contestualmente a ritroso le fasi salienti. Pur essendo animato, il film non ha nulla di fanciullesco, l’unico problema è che non si riescono a seguire attentamente i dialoghi, perché si viene attratti dalla fantasmagoria delle immagini cangianti, infatti capita che una stessa scena sia ripresa nelle variazioni della luce del giorno o da una diversa angolatura; insomma bisogna vederlo due volte, per apprezzarne tutta la poliedricità artistica: immagini e sceneggiatura.

So fare qualcosa anch’io

Dopo aver piacevolmente visto il film Latin Lover di Cristina Comencini, non so se confermare a me stesso che si tratta della regista italiana da me preferita. In questo film la Comencini si cimenta in una commedia tipicamente italiana, ma dall’intreccio vagamente almodovariano, dove l’atmosfera non tocca però mai le vette del dramma. La storia è un po’ surreale: a distanza di anni dalla morte di Saverio Crispo, un mito cinematografico osannato dal mondo intero, quattro figlie avute da quattro donne diverse, due ex-mogli e un amante si ritrovano insieme per celebrare la memoria del grande attore, al quale il paese di origine ha dedicato un’epigrafe e organizzato un evento celebrativo. Ben presto i festeggiamenti per Saverio diventano il palcoscenico dei drammi personali delle figlie(alcune si incontrano per la prima volta e alle quattro se ne aggiungeranno due), diverse per storia personale, ma accomunate dalla mitizzazione del padre-attore, e delle due mogli, che tentano di tutto per evitare che l’amante di Saverio possa distruggere il mito del latin lover, spiattellando ai quattro venti il lato omosessuale del loro ex-marito. Di fatto la cerimonia celebrativa passa in secondo piano nel prosieguo del film, perché la Comencini tratteggia mirabilmente il profilo psicologico delle sei donne, la cui vita nel bene e nel male è stata condizionata dall’incontro con il mito Saverio Crispo, e analizza la difficoltà delle relazioni fra i componenti, tra l’altro, di una sgangherata famiglia allargata, ma il focus su cui insiste la regista va oltre la drammatica commediola delle quattro sorelle. Lo svelamento progressivo dell’altro volto di Saverio, sottoposto a un processo di demitizzazione, avvia le donne lungo un itinerario di presa di coscienza di se stesse, dei loro limiti e risorse: chi si libererà del senso di inadeguatezza alla vita e delle sedute psicanalitiche chiudendola con il sentirsi figlia di una parentesi sessuale, chi smaschererà i tradimenti del marito, chi accetterà lo status sociale dell’uomo che ama fregandosene dei condizionamenti sociali, chi sperimenterà gli eccessi della leggerezza erotica. A completare il quadro della famiglia si aggiungono altre due figlie, l’americana, che non è riuscita a presenziare all’evento per un disguido di date e che agisce sulla scena nella parte finale del film, e probabilmente la giovane cameriera Saveria, frutto di un’avventura sessuale dell’attore con la madre della ragazza, già storica cameriera di casa Crispo. Al tema della recuperata identità attraverso la demitizzazione corrono paralleli altri due temi, la narrazione di sé come momento liberatorio della coscienza, in tal senso è centrale la scena in cui le donne si mettono a nudo raccontando di se stesse, e il melting pot familiare, che vede dialogare culture e tradizioni differenti(italiana, francese, svedese, spagnola, americana). Nei titoli di coda si sottolinea che la storia è frutto di invenzione artistica, ma è innegabile che aleggi dietro le scene e le maschere dei personaggi il fantasma paterno della Comencini. Volenti o nolenti, nel bene e nel male, che lo si voglia riconoscere o disconoscere, i figli sono condizionati dai genitori e non sempre ciò è esaltante. Prenderne coscienza può essere un’opportunità di crescita, resta il fatto, però, che la vita non è un film.

“Io sono Mia”

Opera di Paolanatalia58

Ieri sera, a sorpresa, ho recuperato su Raiuno il film “Io sono mia“, un omaggio alla indimenticabile Mia Martini, interpretata dall’attrice Serena Rossi, forse l’unica del cast ad aver recitato davvero in modo intenso se confrontata con gli altri attori, i cui personaggi li ho trovati a tratti sbiaditi e impersonali, a volte irriconoscibili. Il film è stato trasmesso in seconda serata dopo un bagno di techetecheté dedicato alle sorelle Bertè forse per ragioni di riempimento del palinsesto. O almeno così voglio ipotizzare.

Il film soltanto parzialmente ricostruisce la vita di Mimì, infatti la focalizzazione è continuamente spostata sullo stigma, che ha segnato la cantante per gran parte della sua carriera, quello di portare iella. Non è un caso che la narrazione prenda avvio dal 1989, anno che segnò il ritorno di Mimì sulle scene e per giunta sul palco di Sanremo con quel capolavoro canoro, che soltanto l’interprete calabrese sapeva vivere con la sua inconfondibile voce, ossia Almeno tu nell’universo. Il 1989 fu un anno cruciale per Mimì, che da tempo si era reclusa in un silenzio di sofferenza e di solitudine, stanca di sopportare l’ostracismo dell’industria discografica e il bullismo di tante povere stupide animelle vip, disposte anche a rinunciare a una serata in un pub, pur di non essere contaminate dalla presenza di Mimì. In quell’anno, grazie ai pochissimi amici rimasti e a Bruno Lauzi, la cantante si tirò fuori dal baratro e affrontò con meritato successo il pubblico, che la riscoprì interprete unica e originale. Poi, collezionato un successo dopo l’altro, la morte misteriosa. Per chi la amava fu una perdita irrecuperabile, per i bulli del jet-set musicale italiano non si sa. Probabilmente qualcuno ha avuto il coraggio di rilasciare un’intervista ipocrita o di partecipare alle esequie. Misteri dell’essere umano. E forse questo resta il significato profondo del film, una riflessione su quanto gli uomini possano essere infingardi fino a distruggere la vita di altri uomini, tra l’altro in un ambiente, quello dello spettacolo, dove la parola che stigmatizza corre veloce e impietosa. Le scene più toccanti del film, le più autenticamente targate Mimì, riguardano l’anno del ritorno e l’intervista rilasciata a una giornalista, il cui iniziale pregiudizio nei confronti di Mia Martini si sgretola man mano che ne approfondisce la vita e la statura di artista. È nello scontro-incontro tra i due personaggi, che si condensa il messaggio del film: la conoscenza profonda e viscerale dell’altro è l’unica unica protezione da qualsiasi tipo di stigma.

Il resto del film segue il tipico andamento della biografia romanzata e, non indugiando per nulla sulla santificazione del personaggio principale, ne fornisce un’immagine autenticamente genuina e fedele di donna e artista. Rende triste il fatto che alcuni cantanti e cantautori non abbiano voluto prestare il loro nome agli omonimi personaggi del film, per cui compaiono nella sceneggiatura figure inesistenti nella vita di Mimì.

Essendo un film, che tematizza l’odio che si fa parola passando dalla stupidità umana, può essere adatto anche a un pubblico di giovani studenti. Goderselo, invece, da fan di Mimì è insieme croce e delizia.

Can’t smile without you

Come reagiremmo se, affranti dalla perdita di un nostro affetto, uno sconosciuto piombasse nella nostra vita per consolarci? Forse, sconvolti dal dolore, non lo prenderemmo neanche in considerazione, di sicuro non lo accoglieremmo in casa. Anzi… tutt’altro. Ma nelle storie tutto è possibile. Ed è possibile che da un incontro del genere scaturisca addirittura una relazione di amicizia. Ma c’è altro. Infatti amore incondizionato, amicizia, solidarietà sono gli ingredienti che condiscono il film, che da questo post entra a pieno titolo tra i miei cult, ossia Insieme per caso, anno 2002, con due straordinari Rupert Everett e Kathy Bates per la regia di P. H. Hogan. Due vite, sideralmente distanti, ad un certo punto si incrociano: lei, Grace, casalinga sognante devota alla famiglia, nasconde dentro sé il segreto di un amore immaginario con il suo cantante preferito; lui, Dirk, autore di canzoni, invece, è proprio il compagno di quel cantante, che viene assassinato da uno psicopatico killer seriale. Ad accomunarli, infatti, è l’amore per il cantante Victor Fox, che rappresenta l’oggetto intorno a cui ruotano i temi del film: la diversità umana che può diventare una forza della natura(Dirk, Grace e sua nuora, la nana Maudey, si coalizzano per rendere giustizia a Victor), l’amore incondizionato che nulla chiede e molto dà, l’amicizia e la solidarietà. Arricchisce il film la colonna sonora, che ripropone i successi di alcuni cantanti anglofoni, come Tom Jones e Barry Manilow. Indefinibile il genere: si tratta di un pasticcio che alterna al romantico il drammatico, alla commedia la parodia del thriller. Ed è forse anche questo a rendere unico il film in questione.

Tale of Tales

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Illustrazione di Andrea Lupo

Esprimo qui il mio plauso al regista Matteo Garrone per l’operazione, non certamente di facile fattura, relativa alla trasposizione in immagini di uno dei capolavori della letteratura barocca italiana ed europea del secolo XVI, ossia il  Cunto de li cunti di Giambattista Basile. Il Cunto è una raccolta di cinquanta fiabe, organizzate secondo il modello del Decameron, raccontate da dieci narratrici nell’arco di cinque giorni; com’è tradizione consolidata, il primo racconto funge da cornice a tutto il resto. 

Ho avuto modo di conoscere l’opera alla fine degli anni ’80 (nell’edizione G.B. Basile, Lo cunto de li cunti, testo della prima edizione del 1634-1636, traduzione a fronte, note, a cura di Michele Rak, Milano, Garzanti, 1985), quando, per puro caso fortuito(il titolare della cattedra sparì per tre anni dal circuito accademico), ebbi la fortuna di avere come professore di lingua e letteratura italiana il professore Michele Rak;  il secondo anno prevedeva, tra gli altri, un corso monografico imperniato proprio sul testo di Giambattista Basile. Fu un’esperienza formativa per me rivoluzionaria, perché il professore Michele Rak, dotando noi studenti di un piumino catturapolvere letteraria, riuscì a farci connettere il testo di Basile al contesto pragmatico di performance dell’opera all’interno delle corti seicentesche italiane del secolo XVII; la tesi sostenuta è, infatti, che le fiabe di Basile non fossero destinate alla lettura individuale da parte di lettori silenziosi, ma arricchissero il loro carattere diegetico attraverso una contaminazione felice con la mimesi teatrale: la parola narrativa veniva accompagnata, e completata, da elementi paralinguistici(intonazione, ammiccamenti al pubblico, riso, sbadigli, sospiri), gestuali(le mani, gli occhi), teatrali e musicali. La cornice narrativa, costruita dall’autore, veniva perciò incorporata all’interno di uno spazio, insieme fisico(la sala di recitazione/rappresentazione) e metaforico(il teatro come scena immediata del mondo), in cui, attraverso il ricorso agli strumenti della narrazione, era possibile temporaneamente infrangere, sovvertire e talvolta riscrivere le regole del rigido mondo sociale seicentesco. Per avvalorare la sua tesi, un giorno il professore Rak, durante una lezione, organizzò una cornice teatrale legata ad una delle fiabe: attori, mimi e musicisti accompagnarono la lettura dell’opera e tutti riuscimmo a cogliere le battute popolari, i doppi sensi, finanche i richiami filosofici contenuti nell’opera. Fu per tutti noi studenti un’esperienza surreale e fu sicuramente allora che scaturì da quella lezione, incontenibile, la mia passione per la letteratura barocca tutta. Si trattò di una sollecitazione a ri-studiare ex novo un Seicento, che il mio professore di liceo aveva liquidato con un pre-giudizio iniquo e sprezzante.

Tutto questo, e anche di più, me lo sono goduto attraverso l’operazione filmica di Garrone che, contemperando in modo equilibrato gli effetti speciali cinematografici tipici del fantasy con la fattura artigianale della recitazione degli attori(abilissimi!), concedendo pochissimo ai mirabilia tecnici, è riuscito a realizzare un film coeso e coerente sotto il profilo narrativo e strutturale; il fruitore coglie in maniera distinta la tecnica dell’incastonamento narrativo di una fiaba nell’altra(didatticamente il film può essere un ottimo cavallo di Troia per spiegare agli allievi certe tecniche narrative), è tenuto costantemente in uno stato di suspense emotiva e può felicemente far tesoro della morale contenuta in ciascuna fiaba. A distanza di secoli, con la consapevolezza che non si possa mescolare passato e presente come se fosse possibile azzerare la radicazione storico-sociale di valori, comportamenti e idee, lo spettatore scopre che, in fondo, gli esseri umani restano sempre uguali a se stessi: padri che sacrificano figli per puro istinto egoistico, perdendosi dietro figurazioni illusorie del loro oggetto del desiderio(La pulce), madri e padri che scambiano i figli per oggetti da mostrare, possedere e tiranneggiare nel caso si sottraggano al prolungamento del loro desiderio(La cerva), bellezza e potere ottenuti attraverso il ricorso all’inganno, alla finzione, alla manipolazione di sé, degli altri, del proprio corpo(La vecchia scorticata); in ogni caso sono le leggi della narrazione a ristabilire gli equilibri infranti, quelli che, molto spesso, gli uomini non sono riusciti a comporre. Né ieri, né oggi.