Oggi do la parola a Selvaggia Lucarelli. Questo suo scritto mi ha commosso.
Il coronavirus e “l’effetto bat”, sulla mia famiglia.
Quando ero bambina, nella bella casa avvolta nel nulla in cui vivevo con la mia famiglia, le sere d’estate tenevamo le finestre aperte. Ogni tanto un pipistrello piombava in salotto finendo per picchiare testa e ali sul vetro o sul soffitto in una sorta di panico danzante. Io, mia madre e i miei fratelli scappavano terrorizzati nel corridoio, lasciandoci dietro la porta a vetri della sala ben chiusa, mentre mio padre rimaneva lì imperturbabile, a sfidare il topo alato. Non ha mai avuto paura di niente, mio padre. Ricordo che lo spiavamo atterriti dalla porta a vetri, ricordo la flemma soave con cui afferrava la scopa e cercava di accompagnare quel pipistrello verso la finestra. Lui lo sfiorava e quello pareva toccato dal taser di un poliziotto. Non so se avete mai visto un pipistrello che si agita sbattendo le ali, ma ecco, sappiate che c’è qualcosa di terrorizzante, nel suo panico. E’ quel genere di paura che fa più paura del pericolo eventuale. Roba che se il battito d’ali di una farfalla provoca un uragano da qualche parte, il battito d’ali di un pipistrello spaventato è destinato, come minimo, a generare una tempesta solare nell’universo. O un’epidemia.
Trent’anni dopo, io e mio papà siamo in città lontane, non sapendo quando ci rivedremo, chiedendo l’uno all’altra di essere prudente, chiacchierando di quel pipistrello che con un battito d’ali, in qualche luogo remoto della Cina, ha provocato tutto questo disastro di dolore. “L’effetto bat”, altro che butterfly, ci siamo detti io e mio papà scherzando. Mentre scherzavamo, però, sentivo che quello era il primo pipistrello di cui mio padre aveva paura. E anche questa volta era la paura a spaventarmi, più che il pericolo eventuale.
L’ho percepita, in queste settimane inverosimili, dai suoi racconti spogli di quel solito disincanto che poi è la cifra di mio papà, uno che conosce i vantaggi della giusta distanza dalle cose, uno che scaccia pipistrelli e seccature con la scopa, senza che nulla lo attraversi fino in fondo. E’ sempre stata la forza gentile di mio papà, questa. Che però ha 85 anni e vive con mia mamma con l’Alzheimer, nel mezzo di un’epidemia che lui ha paragonato a una guerra “in cui però non c’è un posto in cui scappare”. Vivono in campagna, dalle parti di Civitavecchia.
All’inizio mi è sembrato che lui si sentisse al sicuro, a malapena ci arriva il postino, lì, capirai se un virus se ne parte dal mercato del pesce di Wuhan per finire in un borgo di case di tufo, dove le radici degli alberi si mangiano l’asfalto. Poi quei puntini rossi hanno iniziato a comparire a caso, sulla sinistra cartina del contagio. Il Coronavirus a Gualdo Cattaneo? A San Lucido? A Troina? A Nerola? E come ci è arrivato, il Coronavirus, a Lampedusa? A un tratto, l’idea che potesse arrivare anche lì, tra Civitavecchia e il nulla, non era più tanto improbabile. Lo sapevo, lo sapeva anche mio papà. Che è sempre stato uno di quelli che andavano a fare la spesa una paio di volte al giorno, gli piaceva tornare con un barattolo di pomodoro in mano e mia madre lo sgridava: “Ma compra qualcosa in più, che poi devi fare avanti e indietro dieci volte!”. Ho detto a mio padre di andare solo una volta a settimana al supermercato, che è pericoloso, “lì tutti toccano tutto”. “Lo so”, mi ha risposto lui. E poi ha aggiunto che porta anche mia mamma, non può rimanere sola a casa per via dell’Alzheimer e però non la fa scendere, la chiude a chiave in macchina, perché mia madre poi tra uno scaffale e altro se lo dimentica di dover sopravvivere a una pandemia. Chissà cosa tocca, inutile rischiare il doppio.
Mia mamma, al telefono, certe volte sembra sapere che sta accadendo, “che cosa terribile”, mi fa. Poi io dico che so, che una mia amica ha la tosse ed è preoccupata e lei “vabbè, perché mai la tosse dovrebbe preoccuparla?” e capisco che nella sua bolla impenetrabile non ci sono virus e gente che muore senza un respiratore e un po’ mi dico che è fortunata, di questi tempi, a starsene lì dentro. Poi però penso a come era. Mia madre aveva un debole per le catastrofi. Empatizzava con tutti, piangeva guardando le immagini di sfollati dall’Uganda, di terremoti in Uzbekistan, di tsunami in Indonesia. Era una di quelle mamme che finito il tg poi telefonava alla zia o alla sorella e doveva prolungare lo strazio al telefono con qualcuno “Ma le hai viste le immagini di quella povera bambina sotto le macerie?” e piangeva di nuovo. Penso che mia madre, oggi, avrebbe sentito ogni cosa, avrebbe abbracciato il dolore di tutti, sarebbe stata la mia mamma straziata e partecipe e mi manca non parlare con lei di quello che ha investito il mondo.
Tornando a mio papà, invece, lui c’è più di prima. Lui che quando mia mamma si commuoveva per un delfino spiaggiato alle Fiji, mi guardava con aria di ironico compatimento “Lo sai che è fatta così”. Ora è mio papà, quello “un po’ così”. Non ha protestato quando gli ho detto che non doveva andare in posta, che le bollette gliele avrei pagate online io. Mi ha detto che aveva fatto entrare degli operai in casa settimane fa, che non lo doveva fare. Che non dome più bene la notte. Ha detto, a mio fratello, “se me lo prendo, io sono il primo”.
Quando mio fratello me lo ha riferito mi sono sentita in balia degli eventi, io che in balia di qualcosa non mi ci sento mai. E alla fine ho capito che è questo, nella mia famiglia, la pandemia: essere altro, rispetto a quello che siamo sempre stati. Che poi è la cosa migliore che ci potesse succedere, forse, in mezzo a tanto dolore(Selvaggia Lucarelli).
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