Centum oculos nox occupat una

ts2208v3-4Critici più autorevoli di me hanno già versato inchiostro per pennellare la seconda esperienza di scrittura di Gesualdo Bufalino, Argo il cieco ovvero I sogni della memoria, Sellerio editore 1984, perciò non starò qui a tessere chissà quali trame di parole per tratteggiarne la fattura strutturale, gli antenati illustri nel grande albero genealogico della letteratura e quant’altro. In tal senso mi pare più opportuno rimandare all’utile introduzione, nell’edizione Tascabili Bompiani, di Massimo Onofri e agli studi di Nunzio Zago. Eppure qualche parola devo spenderla.

Un doppio ordito narrativo, come di quei ricami di cui si sa distinguere con nettezza quale sia il dritto e quale il rovescio, attraversa la struttura del romanzo e la meraviglia del lettore scaturisce proprio dal poter confrontare i due volti del manufatto letterario, il diario-memoria e il retrobottega metanarrativo, di incubazione ideale e di manifattura artigianale del primo. Fiume primaverile in piena la ricostruzione autobiografica, legata all’estate del 1951, ancorata nello spazio della Modica melagrana spaccata, torrentello in secca il silente dialogo dello scrittore con il lettore e con se stesso, metafora quest’ultimo di quella stagione della vita che s’inerpica per i sentieri della senescenza alla ricerca di quell’oasi di vita, che fu la gioventù d’amore, consumatasi per l’io narrato nell’estate del 1951. Sbaglierebbe il lettore, se liquidasse il secondo romanzo di Bufalino come una sorta di operazione di recupero romantico della gioventù d’amore dello scrittore(stile Un’ estate fa), che si materializza nella figura del narrante- protagonista; il libro, a mio parere, è un lunghissimo interrogativo, posto al lettore e allo scrittore stesso, circa la possibilità di essere felici attraverso l’amore, o meglio attraverso i mille volti d’amore che si incontrano o s’incrociano nel cammino di una vita o in quello di un’unica stagione. E ancora se tali incroci di volti e di corpi e di amplessi, immaginati e reali, possano coincidere con la ricerca soggettiva della felicità. Amore, felicità, cecità. Questo il telaio su cui viene teso il tessuto della trama narrativa, i cui gangli sono le parole, anzi la lingua  di Bufalino.

Il lettore, proprio grazie alle pause metanarrative disseminate qua e là lungo il fiume del recupero memoriale, prende coscienza che l’io-memoria non pesca nel fondo del pozzo del tempo che fu affetto da virosi proustiana, né tanto meno vuole fissare in un quadro storico-sociale la Sicilia modicana, o la siciliana Modica, degli anni ’50 per leggere in filigrana un’epoca intera; certamente Argo il cieco è anche questo, ma la vena narrativa di Bufalino, altamente poetica, è scevra di ogni radiografia sciasciana della mentalità siciliana, né strumentalizza verghianamente la sicilianità per confezionare un prodotto letterario. Non è lettura filosofica(e antropologica)pirandellianamente parlando; forse, per alcune movenze, ma sono brevissime soste, la prosa di Bufalino di questo romanzo si può accostare a certi spaccati lirici di Conversazione in Sicilia di Vittorini. L’originalità, che s’imprime nella testa del lettore, è tutta invece nella lingua, tanto che interi segmenti narrativo-poetici vivono in sé e per sé, costituendo dei singoli gioielli di alta fattura, perciò, più di tutto, Argo il cieco colpisce il lettore, ed è anche la sua originalità, per l’impasto linguistico che Bufalino sa amalgamare con maestria avvincente, guidando, e perché no costringendo il lettore, ad aprire i cassetti della memoria letteraria: su corposi assi metaforici, che ricordano la metafora continuata di zecca barocca, ma dove è assente il gioco virtuosistico fine a se stesso, lo scrittore incastona citazioni dotte, allude, impasta, modella e forgia una prosa oserei dire rococheggiante, che disarciona gli angusti limiti del finito e apre le vie siderali dell’infinito, dell’oltre e del vagheggiamento immaginifico.

Ecco alcuni lacerti:

[Fui giovane e felice un’estate, nel cinquantuno. Né prima né dopo: quell’estate. E forse fu grazia del luogo dove abitavo, un paese in figura di melagrana spaccata; vicino al mare ma campagnolo; metà ristretto su uno sprone di roccia, metà sparpagliato ai suoi piedi; con tante scale fra le due metà, a far da pacieri, e nuvole in cielo da un campanile all’altro, trafelate come staffette dei Cavalleggeri del Re… che sventolare, a quel tempo, di percalli da corredo e lenzuola di tela di lino per tutti i vicoli delle due Modiche, la Bassa e la Alta; e che angele ragazze si spenzolavano dai davanzali, tutte brune. Quella che amavo io era la più bruna.]
[Le altre tre stagioni, prima di quell’ estate, erano volate via presto, né tristi né liete. L’autunno recò qualche garza di nebbia dietro i vetri dell’ aula, e la mosca più cavallina a spirare, zampettando, fra due pagine di registro. L’ultimo fico d’ottobre si raggrinzì di dolcezza, non colto, su uno stecco di ramo irrigidito dal freddo, rimasero nei campi i fiori di cardo soltanto, in piedi, come un gramo plotone di scheletri cappuccini. Poi i gelsi nei cortili cominciarono a perdere foglia, prese a piovere ogni giorno, dalle otto e mezza alle nove, di proposito, come per un’invidia delle stelle contro la prima, sempre promessa e sempre differita, passeggiata dell’ anno di scuola. Le ragazze giungevano con uno smilzo fagotto di libri appeso al mignolo destro, speranzose di poterlo lasciare sul banco dentro la nativa cinghietta, per avviarsi alla buon’ora in colonna su per le rampe di Monserrato. Illusioni. Erano appena in vista del portone d’ingresso che udivano dalla voce del preside Biscari il vecchio proverbio ch’ egli s’era inventato contro di loro a mo’ d’affettuoso e inalterabile scherno: “Cielo a pecorelle, scuola a catinelle.” Ancora più furenti se in quello stesso momento, mentre levavano come velenosi rinfacci ‘le pupille alle’ minacce del cielo, uno sbuffo di tramontana le coglieva alla sprovvista, senza risparmiarne, è doloroso dirlo, il pudore. Si issavano ad alzabandiera, e sbalordivano il mondo, le sottane tenebrose dei diciott’anni; e quel lampo dissotterrava lembi di carne imprevedibilmente paffuta, pubblicava golfi d’ombra, dessous talvolta non precisamente illibati.]
[Che cosa curiosa: sono ciechi entrambi, amore e felicità, però non stanno bene insieme. L’amore non è certo una pace, né vale a sospendere il tempo, bensì lo accorcia e dilata. Inoltre introduce nella mente un ingombro di larve eloquenti, un cinema pubblicitario e farnetico, con una voce che grida in perpetuo: tu, tu, tu!; e un’altra che replica colpo su colpo: io, io, io … Non ha nulla da spartire, l’amore, con un’idea di felicità. Salvo quando non è ancora giunto e lo aspettiamo dietro i vetri, coltivandone il vizio nella mente, e fiutandone da lontano il fiato come un allarme di primavera. Ora dunque, se volevo essere felice, che c’entrava, l’amore? Forse nulla ma forse a me piaceva chiedere entrambe le cecità, e mi rifiutavo di scompagnarle, le mischiavo insieme sotto uno stesso nome contrabbandiere. Molto più tardi avrei saputo da un savio orientale che la felicità può essere questo: ascoltare di notte il canto di una bambina che se ne va dopo averci chiesto la strada. Per intanto i miei denti di lupo giovane non avrebbero permesso a nessun Cappuccetto Rosso di allontanarsi cantando…]

 

7 pensieri su “Centum oculos nox occupat una

  1. @Saluti a te, Ornella!

    @Kappadue, mi dispiace non avere sottolineato la briosità della narrazione di Bufalino in “Argo”. Quasi un Bufalino “altro” rispetto a “Diceria”, a mio modesto parere.

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