Disimpegno forzato

In questi giorni più volte mi è balenato di ritornare a scrivere sul blog, ma altrettante volte ho desistito per il carico di impegni, che rode sempre più il mio tempo libero. Oggi se n’è presentata l’occasione per un incrocio di circostanze favorevoli, tra cui la nullafacenza del mio stare a scuola in modo improduttivo. Da una settimana la mia scuola celebra la settimana dello studente, che il consesso dei miei colleghi ha approvato a maggioranza. Si tratta di un’iniziativa, radicatasi da qualche anno nelle scuole del territorio palermitano, mirante a stravolgere in qualche modo la normale routine scolastica: studenti e professori progettano insieme dei percorsi didattici, da svolgere in aula o all’esterno(musei, spazi aperti, teatro, cinema, etc…), che amplierebbero l’orizzonte culturale degli uni e degli altri; e in effetti un qualche pregio lo si può ad essi riconoscere, per il fatto che gli studenti conoscono, visitano e valorizzano porzioni culturali della città o approfondiscono segmenti del curricolo scolastico, che parlano più dei libri. Solitamente ho dato il mio contributo all’organizzazione della settimana, ma quest’anno, a causa dei miei impegni personali, ho votato no e mi sono mantenuto all’ombra. Ci sono, però, anche delle ragioni di opposizione all’iniziativa, che a mio parere nasce più dal tacito compromesso tra dirigenza e studenti circa l’inutilità di occupare la scuola(forse ce ne siamo liberati) che dalla volontà di dare voce all’autodeterminazione degli studenti: la durata delle attività supera solitamente quella di servizio, la scuola mette già al centro di tutto lo studente, pertanto non è necessario dedicargli un’intera settimana, il protrarsi dell’idea sessantottina che esista un’opposizione tra professori e studenti, scuola e vita, tale che occorra uno spazio dedicato interamente ai desiderata degli studenti. Il rovescio della medaglia è che si trascorrono delle intere giornate a scuola immersi in un tedioso far nulla in sala docenti, a meno che non si venga precettati per una supplenza in una classe non propria. Egoisticamente ammetto che la settimana, a parte la parentesi dello scrutinio, è scivolata via senza pesantezza; e poi è grazie al mio disimpegno forzato che oggi ho potuto aggiornare il blog.

Mi mancava.

In ricordo di Michela Murgia

Ripubblico un post del 2009 sulla scrittura di Michela Murgia, le cui opere ho avuto il piacere di leggere quando ancora era pressoché sconosciuta. Ultimamente Murgia era diventata una voce fuori dal coro con prese di posizione nette e coraggiose, cosa rara di questi nostri tempi inquinati nel pensiero e nelle parole di politicamente corretto.

L’ultima. Io sono stata l’ultima madre che alcuni hanno visto.

Ho già avuto l’occasione di assaporare la vena narrativa della scrittrice sarda Michela Murgia, classe ’72, infatti ne ho ascoltato un racconto su radioTre. Dapprima mi attrasse il tono della voce e la capacità di imprimere un ritmo vitale e alacre al narrato, ricevendo io l’impressione della rara coincidenza tra vita e racconto, tra il percorso cittadino fatto dalla protagonista-narratrice sotto la pioggia per le strade di Milano(mi pare) e la luce proiettata su di esso dalla parola e dal discorso che si fa ricerca di senso. Entusiasmato, visitai il sito della scrittrice, complimentandomi per il racconto e stupidamente esortandola a pubblicare il racconto della pioggia destinato, a quanto pare, all’ascolto.

Nel frattempo, però, Michela Murgia probabilmente lavorava, nel senso del “labor” latino, ad un romanzo speciale, Accabadora, di cui ho avuto notizia proprio nel sito di radioTre.

Ho letto Accabadora con curiosità ingorda; a livello stilistico vi ho subito rintracciato le perle della scrittura della Murgia: un periodare ben articolato sintatticamente e obbediente alle regole della lingua italiana, un uso sapiente del discorso indiretto(è chiaro chi narra e chi pensa) intrecciato a dialoghi fra i personaggi dal ritmo serrato e pregni di senso, l’uso della similitudine e talvolta della metafora afferenti ai campi semantici del livello culturale dei personaggi e del narratore, l’incastonamento nel tessuto narrativo di isole analettiche che non sviano il lettore dalla trama, ma anzi lo guidano alla ricostruzione dei significati.

Se lo stile è pregevole, la trama è straordinaria.

Una storia radicata negli anni Cinquanta, per l’ambiente storico-sociale-geografico in cui si muovono i personaggi, e senza Tempo per gli interrogativi che scaturiscono per il lettore.

Il romanzo narra la vicenda di Maria Listru, figlia d’anima di Bonaria Urrai, sarta e abbacadora di Soreni; fillus de anima è, come dice la narratrice, quel figlio generato due volte, una col parto, l’altra con l’affiliazione, mentre “accabadora” è chi assiste il morente e se ne fa in qualche modo liberatore dai lacci della vita, quasi una novella Parca di cultura sarda.

Il disagio economico della famiglia Listru, la colpa di Maria per essere l’ultima di casa, in senso anagrafico e affettivo, l’occhio attento di Bonaria Urrai che si posa su una particolare mania della bambina, la mancanza di un figlio proprio per la vecchia donna innescano la relazione , di mutuo arricchimento, tra le due donne, che avvincono il lettore dall’inizio alla fine.

Alla vicenda di Bonaria Urrai e Maria Listru, la vecchia sarta che si fa maestra di vita e la bimba nel suo percorso di educazione sentimentale, si intreccia quella della famiglia Bastìu e della tragica vicenda di Nicola, che costituisce lo spartiacque tra la prima e la seconda parte del romanzo.

La maestria narrativa di Michela Murgia si rivela pure nel sistema dei personaggi e nella loro caratterizzazione: né Maria, né Bonaria Urrai campeggiano egocentricamente nella narrazione, perché ogni personaggio, dalla madre alle sorelle di Maria, da Andria, fratello di Nicola Bastìu, fino al prete della comunità di Soreni, assumono un ruolo fondamentale nella veicolazione dei significati del romanzo, che si presenta ricco di temi e di spunti di riflessione tanto più validi, sul piano universale, perché scaturiscono da un mondo ormai tramontato: le vicende di Maria e Bonaria Urrai, Nicola e Andria assurgono, a mio parere, al ruolo di archetipi della condizione umana, sganciati dalle mode e dagli scimmiottamenti di tanta letteratura contemporanea capace di soddisfare quanto un orgasmo mordi e fuggi.

I temi sono vari e corposi e si prestano all’attualizzazione problematica: il valore affettivo che lega madre e figlio può essere inverato da un’eredità che è soltanto “biologica”? Esiste la possibilità di una relazione di affiliazione che supera le barriere naturali e sociali? Concepibile, in un sistema sociale rigido, concedere spazio agli ultimi? Ai “diversi”? Almeno quelli considerati tali o che si sentono tali.

In quale spazio mentale l’uomo di oggi ha relegato il momento della morte? Si nasce, nella società contemporanea, sempre più assistiti da figure professionali di alta specializzazione, si nasce, insomma, sempre più in compagnia. E quando si muore? Possiamo autorizzare qualcuno a farci morire dignitosamente? Quali i limiti? Quali le prospettive di orizzonte?

Il romanzo non dà risposte, non sarebbe un romanzo, ma suggerisce, sussurra, illumina, destabilizza le incrollabili certezze di un tempo attuale sempre più disumanizzante.

Personalmente annovero “Accabadora” tra i migliori libri letti quest’anno.

Fruttuosa carriera a MICHELA MURGIA !

Il buongiorno si vede dal mattino!

“Al re piacerà la tua bellezza”

Mio cognato, un fusto di 63 anni, è morto il 23 maggio 2023 alle ore 9.55 circa, mentre a scuola pronunciavo le ultime parole di commento a un passo dell’Odissea. Con il mio amatissimo nipote avevamo concordato che mi avrebbe avvertito immediatamente quando si sarebbe verificato l’ineluttabile e così è stato. Enzo è deceduto dopo circa 4 giorni di agonia, sebbene inizialmente nessuno di noi lo avesse capito, o accettato è meglio dire. Lo aveva ben compreso il personale sanitario del 118 che alle 7 di domenica 21 prese atto delle gravi condizioni del paziente e che, contravvenendo alle regole, gli praticò a casa una fisiologica per disidratarlo. Enzo, infatti, non mangiava da settimane e beveva pochissimo a causa di una disfagia severa, conseguenza della misteriosa malattia neurologica che l’INPS non volle mai certificare, pur in presenza di varie attestazioni e visite mediche. Come avrebbe potuto svolgere la sua funzione di guardia con arma addosso in presenza di gravi disturbi neurologici con conseguenze psichiatriche? Abile, abile, abile. Intanto alle 18 della stessa domenica fu allertato nuovamente il 118, che stavolta, pur di fronte a un vegetale in coma, ci fece una lezioncina sull’assistenza domiciliare, dopo avergli iniettato non so quale antidoto. L’assistenza domiciliare era stata richiesta circa un mese e mezzo prima, dopo che fu dimesso da una clinica neuro-psichiatrica, alla quale arrivò per intervento dei luminari del Pronto Soccorso di Villa Sofia di Palermo, e ben dopo la terza volta che vi era stato trasportato dal 118, assistenza domiciliare che gli fu sempre negata fino al giorno della morte, sì, perché la pratica fu promossa proprio il 23 maggio 2023. Ma torniamo alla clinica! Prima di essere ricoverato lì, mio cognato fu sottoposto a ben tre consulenze mediche presso il PS di Villa Sofia di Palermo; la seconda contiene degli spunti narrativi pirandelliani, perché il medico di turno, una gentilissima dal candore stilnovistico, consigliò alla consorte del paziente di rivolgersi ad un avvocato di affari familiari anziché al PS per risolvere le sue beghe con il marito; Enzo, infatti, manifestava spesso atteggiamenti autolesionistici e aggressivi. La terza volta, come dicevo, fu piazzato dai sanitari del PS in una clinica neuro, dove fu ampiamente sedato e reso paralitico agli arti inferiori. Il giorno delle dimissioni dovetti portare la sedia a rotelle per riportarlo a casa insieme alle anime pie degli amici. Da allora una china discendente. Enzo non mangiava più, beveva pochissimo e rischiava di soffocare, si faceva addosso e poteva restare sveglio anche 48 ore di seguito, invocando il nome della sorella o della mamma già defunte. Assistenza domiciliare negata, chiaramente. Il carico fisico ed economico sulla moglie. La beffa ospedaliera finale prima della morte si realizzò al PS del Policlinico Giaccone di Palermo. Il luminare di turno, pur avendo preso atto del quadro clinico non proprio fausto con un livello di creatinina altissimo, non solo lo dimise, ma ebbe pure l’ardire di stupirsi del fatto che Enzo non mangiasse e bevesse da settimane. Perché condurre un paziente a limiti dell’inedia ad un PS??? Bazzecole. Trascorse ben tre settimane, mio cognato giunse al capolinea della vita. Due giorni prima della morte, una neurologa dell’Asp di Palermo, soltanto a seguito delle mie sollecitazioni inviate all’Asp tramite mail, dopo la visita domiciliare sentenziò definitivamente sulla malattia degenerativa, che aveva trasformato mio cognato in una larva umana.

Il 23 maggio l’epilogo luttuoso.

Il 23 maggio ho sperimentato cosa è la morte. Il corpo, prima del rigor, è ancora tiepido, è simile a quello di un invertebrato e non risponde ad alcuna sollecitazione. Io e mio fratello maggiore abbiamo lavato e asciugato il corpo di mio cognato, lo abbiamo vestito di tutto punto con l’abito matrimoniale e adagiato sul letto prima dell’arrivo dei becchini. Per noi è stato l’ultimo saluto ad una persona che è stata nella nostra famiglia per quarant’anni. Lo abbiamo sepolto nel nostro piccolo centro di provincia nella cappella di famiglia, onde evitare che finisse in uno degli orribili depositi presenti nei cimiteri di Palermo. Personalmente mi sono occupato della lapide, che ho commissionato ad un abilissimo artigiano, che ha scolpito di propria mano i dati anagrafici di mio cognato e un versetto del salmo 45, evitando così iscrizioni e foto computerizzate con svolazzi di finte farfalle su finti fiori e cieli limpidi, che è possibile ultimamente osservare nei cimiteri. Abbiamo scelto la sobrietà. La sobrietà del rito, della cassa, della sepoltura, della lapide, del pianto e del dolore. Una sobrietà composta da opporre alla disumanità generalizzata.

Dominii

C’è sempre una prima volta, infatti sono assente dal blog da quasi tre mesi, sebbene da tempo sempre più frequentemente lo abbia marinato. La vita e la scuola mi hanno fagocitato senza pietà, annullando di fatto il piacere di condividere le mie bazzecole in rete. Di fatto tanti altri miei svaghi sono ad impolverare nella soffitta di un tempo indefinito. Tante volte ho provato a scattare qualche foto con l’intenzione di pubblicarla qui, ma poi l’entusiasmo iniziale si è infiacchito con la stessa potenza del primo impulso provato. E potrei enumerare tanti altri fatti dello stesso tipo. La presa d’atto sconfortante è che ho rimosso di aggiornare il blog e non ho provato un barlume di senso di colpa a differenza di quanto avvenuto in passato. Oggi pomeriggio, mentre ero intento ad aggiornare il mio mac, che non uso da mesi, una delle pagine rimaste aperte sulla homepage mi ha ricordato che esiste il mio blog e, dopo aver indugiato alquanto, ho deciso di scrivere questo post. Perché potessi aggiornarlo, però, mi sono state richieste le credenziali e in pochi secondi mi sono loggato a wp. Inizialmente wp ha fatto un po’ le bizze, chiedendomi se volessi acquistare un dominio, perciò non ho avuto immediato accesso alla schermata dei comandi. Poi è tornato tutto come prima ed eccomi qui a blaterare qualche parola. Caro wp, ti dico che non ho alcuna intenzione di acquistare alcun dominio, sappi che il mio scrivere artigianale è rimasto tale e quale a come lo fu agli inizi. Potessi dominare me stesso! 😀

Fiato di bocca

Bocche piene di falsità che nutre il mondo
Mani prive di dignità, votate a Dio
Sali, uomo, sali e dimentica
Sali e ritorna alla tua nascita

Occhi dell’ambiguità dei nostri tempi
Vite frammentate senza verità
Sali, donna, sali e resuscita
Sali e ritorna alla tua nascita

Libera l’anima
Come rondini la sera
Vola libera

Nitida come il canto dell’anima
Come stella dell’aurora
Di un mattino che non c’è
E che non ha nome

Arca dell’umanità andata a fondo
Cuori puri mangiati dall’avidità
Sali e poi un’altra vita tu

Vivrai, vivrai, vivrai
Vivrai, vivrai, vivrai
Vivrai, vivrai, vivrai

Libera l’anima
Come stella dell’aurora
Di un mattino che non c’è

Sali, sali
Rosa, sali
Come stella dell’aurora
Di un mattino che non c’è

E che non ha nome, oh
Che non ha nome
Oh, oh, oh, oh, oh, oh, oh

Nitida l’anima
Come stella dell’aurora
Di un mattino che non c’è
E che non ha nome

Acquietatasi la bufera della settimana sanremese, a margine della kermesse annoto tristemente che, almeno in Italia, c’è una cattiveria social, mista a odio, che mi fa paura oltre che ribrezzo. Ho infatti seguito spezzoni delle varie serate sia in tv che tramite Facebook; in un certo senso il social mi è servito per ammortizzare i tempi musicalmente morti o impropri del festival: i monologhi delle vallette, Benigni, le gag preconfezionate, gli ospiti, le volgarità e la maleducazione di certi personaggi…e si potrebbe continuare. Bersaglio di odio e cattiveria nei social è stata la mia cantante preferita, ossia Anna Oxa, da tempo invisa ai giornalisti e alla dirigenza della televisione pubblica. A questo in un certo qual modo mi ero abituato; da almeno vent’anni i giornalisti hanno il dente avvelenato contro la cantante dopo la vittoria del ‘99 che a detta di alcuni di essi sarebbe stata immeritata e dopo l’incidente di percorso come ballerina dalla Carlucci, che ha avuto uno strascico legale tale da determinare una sorta di damnatio memoriae della Oxa dagli schermi pubblici. Se a ciò si aggiunge l’evoluzione artistica della cantante dagli anni ‘00, il quadro risulta ancora più chiaro. Durante questo ventennio i media hanno affrescato attorno alla Oxa uno sfondo leggendario fatto di intrattabilità caratteriale, alterigia, presunzione, divismo, che hanno prodotto a livello periferico la cattiveria cui facevo riferimento. Ho letto commenti e visionato meme e video, che sinceramente devo dire mi hanno infastidito. Qualcuno l’ha paragonata a una monaca per via del vestito della prima serata, un altro alla moglie di Tarzan, sia per la capigliatura che per gli acuti finali del pezzo; qualche altro ha lamentato di non avere capito nulla né della canzone, né delle singole parole. Una nota giornalista ha paragonato la canzone a quella di un druido celtico; e questi sono stati per così dire i più benevoli. Il vituperio peggiore, invece, l’ho registrato nei commenti della gente comune, che per decenza ometto qui nel post. Pochi hanno evidenziato con onestà la scelta della Oxa e con motivazioni fondate il significato del testo, che non necessariamente deve piacere a tutti. Però c’è modo e modo di esprimere il proprio parere. Non gradire è un conto, offendere e dileggiare un altro. Hanno lavato, invece, questo fango tanti comuni estimatori che, prima di aprire bocca, hanno attivato il cervello e il cuore.