Ripubblico un post del 2009 sulla scrittura di Michela Murgia, le cui opere ho avuto il piacere di leggere quando ancora era pressoché sconosciuta. Ultimamente Murgia era diventata una voce fuori dal coro con prese di posizione nette e coraggiose, cosa rara di questi nostri tempi inquinati nel pensiero e nelle parole di politicamente corretto.
L’ultima. Io sono stata l’ultima madre che alcuni hanno visto.
Ho già avuto l’occasione di assaporare la vena narrativa della scrittrice sarda Michela Murgia, classe ’72, infatti ne ho ascoltato un racconto su radioTre. Dapprima mi attrasse il tono della voce e la capacità di imprimere un ritmo vitale e alacre al narrato, ricevendo io l’impressione della rara coincidenza tra vita e racconto, tra il percorso cittadino fatto dalla protagonista-narratrice sotto la pioggia per le strade di Milano(mi pare) e la luce proiettata su di esso dalla parola e dal discorso che si fa ricerca di senso. Entusiasmato, visitai il sito della scrittrice, complimentandomi per il racconto e stupidamente esortandola a pubblicare il racconto della pioggia destinato, a quanto pare, all’ascolto.
Nel frattempo, però, Michela Murgia probabilmente lavorava, nel senso del “labor” latino, ad un romanzo speciale, Accabadora, di cui ho avuto notizia proprio nel sito di radioTre.
Ho letto Accabadora con curiosità ingorda; a livello stilistico vi ho subito rintracciato le perle della scrittura della Murgia: un periodare ben articolato sintatticamente e obbediente alle regole della lingua italiana, un uso sapiente del discorso indiretto(è chiaro chi narra e chi pensa) intrecciato a dialoghi fra i personaggi dal ritmo serrato e pregni di senso, l’uso della similitudine e talvolta della metafora afferenti ai campi semantici del livello culturale dei personaggi e del narratore, l’incastonamento nel tessuto narrativo di isole analettiche che non sviano il lettore dalla trama, ma anzi lo guidano alla ricostruzione dei significati.
Se lo stile è pregevole, la trama è straordinaria.
Una storia radicata negli anni Cinquanta, per l’ambiente storico-sociale-geografico in cui si muovono i personaggi, e senza Tempo per gli interrogativi che scaturiscono per il lettore.
Il romanzo narra la vicenda di Maria Listru, figlia d’anima di Bonaria Urrai, sarta e abbacadora di Soreni; fillus de anima è, come dice la narratrice, quel figlio generato due volte, una col parto, l’altra con l’affiliazione, mentre “accabadora” è chi assiste il morente e se ne fa in qualche modo liberatore dai lacci della vita, quasi una novella Parca di cultura sarda.
Il disagio economico della famiglia Listru, la colpa di Maria per essere l’ultima di casa, in senso anagrafico e affettivo, l’occhio attento di Bonaria Urrai che si posa su una particolare mania della bambina, la mancanza di un figlio proprio per la vecchia donna innescano la relazione , di mutuo arricchimento, tra le due donne, che avvincono il lettore dall’inizio alla fine.
Alla vicenda di Bonaria Urrai e Maria Listru, la vecchia sarta che si fa maestra di vita e la bimba nel suo percorso di educazione sentimentale, si intreccia quella della famiglia Bastìu e della tragica vicenda di Nicola, che costituisce lo spartiacque tra la prima e la seconda parte del romanzo.
La maestria narrativa di Michela Murgia si rivela pure nel sistema dei personaggi e nella loro caratterizzazione: né Maria, né Bonaria Urrai campeggiano egocentricamente nella narrazione, perché ogni personaggio, dalla madre alle sorelle di Maria, da Andria, fratello di Nicola Bastìu, fino al prete della comunità di Soreni, assumono un ruolo fondamentale nella veicolazione dei significati del romanzo, che si presenta ricco di temi e di spunti di riflessione tanto più validi, sul piano universale, perché scaturiscono da un mondo ormai tramontato: le vicende di Maria e Bonaria Urrai, Nicola e Andria assurgono, a mio parere, al ruolo di archetipi della condizione umana, sganciati dalle mode e dagli scimmiottamenti di tanta letteratura contemporanea capace di soddisfare quanto un orgasmo mordi e fuggi.
I temi sono vari e corposi e si prestano all’attualizzazione problematica: il valore affettivo che lega madre e figlio può essere inverato da un’eredità che è soltanto “biologica”? Esiste la possibilità di una relazione di affiliazione che supera le barriere naturali e sociali? Concepibile, in un sistema sociale rigido, concedere spazio agli ultimi? Ai “diversi”? Almeno quelli considerati tali o che si sentono tali.
In quale spazio mentale l’uomo di oggi ha relegato il momento della morte? Si nasce, nella società contemporanea, sempre più assistiti da figure professionali di alta specializzazione, si nasce, insomma, sempre più in compagnia. E quando si muore? Possiamo autorizzare qualcuno a farci morire dignitosamente? Quali i limiti? Quali le prospettive di orizzonte?
Il romanzo non dà risposte, non sarebbe un romanzo, ma suggerisce, sussurra, illumina, destabilizza le incrollabili certezze di un tempo attuale sempre più disumanizzante.
Personalmente annovero “Accabadora” tra i migliori libri letti quest’anno.
Fruttuosa carriera a MICHELA MURGIA !
Il buongiorno si vede dal mattino!